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Occasione per fare il punto su una carriera monumentale, la masterclass di Edgar Reitz al Bif&st 2015 dà la possibilità al regista tedesco di promuovere anche L’altra Heimat – Cronaca di un sogno, quarta declinazione del monumentale progetto Heimat che dal 1984 occupa la creatività del regista. “Negli anni ’60 era necessaria una nuova cinematografia – ha spiegato Reitz dopo la visione del 9° episodio del primo Heimat –. La mia era la prima generazione cresciuta in un contesto democratico, una generazione che voleva prendere le distanze dal cinema nazista. Il nostro motto era: il cinema dei padri è morto! Il nostro orizzonte era la nostra patria”. E a quella patria (Heimat significa appunto patria) Reitz ha dedicato forse il punto d’arrivo del nuovo cinema tedesco.
La città d’elezione è sempre Schabbach – ma stavolta la storia si svolge nella metà del 1800 – dove la famiglia Simon, a causa di una povertà sempre più depressiva, comincia a fare i conti con la possibilità di emigrare in Brasile: i rapporti familiari, i sommovimenti politici e le questioni sentimentali saranno il materiale su cui la Storia si compie attraverso due fratelli, un lavoratore carismatico e un timido studioso. Scritto da Reitz con Gary Heidenreich, L’altra Heimat è uno straordinario dramma popolare, una saga in bianco e nero con squarci di colore, divisa in due parti (quasi 4 ore in totale) che riflette sui passaggi fondamentali che hanno reso la Germania la nazione che era agli albori del secolo breve. Reitz ha ricordato a Bari di aver scritto, in un primo momento, la storia della sua famiglia partendo dai nonni e dando vita a un manoscritto di circa 100 pagine. “Quando poi l’ho tradotto in film, decisi di prenderne le distanze: Heimat è fittizio, non c’è nessuna figura che è un ritratto diretto della mia famiglia, ma inevitabilmente ci sono dei caratteri in comune”.
La Storia però è lo sfondo ricco ma non unico, di una storia che attraverso il fenomeno dell’emigrazione, dell’altra patria da raggiungere e in cui fuggire dalla miseria – con gli occidentali che oggi subiscono il processo inverso – celebra la scoperta del diverso, il contatto con l’altro; il viaggio culturale attorno le molte visioni del mondo che partono dallo scontro tra la famiglia contadina e il figlio studioso e arrivano al rapporto tra le lingue, al passaggio dalla natura alla tecnologia con una raffinata voce fuori campo che anziché illustrare è la proiezione letteraria e intellettuale del protagonista. E anche lo stile celebra l’incontro con l’esterno usando il colore, che illumina lo stupendo bianco e nero di Gernot Roll con lampi che toccano gli oggetti simbolo del passaggio ad altre fasi della vita dei personaggi. “Ogni film mette nella condizione di salvare gli uomini e di renderli immortali. Tutte le arti – conclude Reitz – hanno a che fare con la salvezza e il mantenimento di ciò che nella vita vera muore. Il cinema può bloccare gli esseri umani nell’immortalità”.
Figlio di Fanny e Alexander di Bergman per il gusto del racconto, l’amore per i personaggi, l’abilità nel costruirli e l’ispirazione figurativa della narrativa russa e germanica e dell’afflato epico del cinema classico, L’altra Heimat è una delle migliori incarnazioni della forma del romanzo per il cinema: Reitz, mai così mobile con la macchina da presa, usa le immagini come un romanziere le parole, in modo efficace e prezioso, costruendo bellissimi contrappunti tra la musica, la fotografia, il montaggio e le scene, volando altissimo in molte occasioni – su tutte la morte dello zio al fuso e la sagra dei piedi freddi. Un’opera magnifica, che anziché raccontare la vita, il mondo e la realtà come i predecessori, li crea, come un demiurgo. O come un artista: “Inizialmente avrei voluto fare l’ingegnere come desiderava mio padre, ma poi mi sono iscritto alla scuola di cinema, dove ho studiato molto l’aspetto tecnico dei film”. Mai cambio di rotta fu più lungimirante.