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Una scena del film
Amore, morte, spiritualità e fragilità esistenziale. Una storia, tre epoche (1500, oggi e 2500) due protagonisti, Hugh Jackman e Rachel Weisz, un amore. Progetto a lunga gestazione, con budget dissanguato dalla defezione di Brad Pitt e Cate Blanchett (da 75 a 35 milioni di dollari), L'albero della vita segna il ritorno dietro la macchina da presa dell'enfant terrible Darren Aronofsky, autore quasi-cult di Pi greco - Il teorema del delirio e Requiem for a Dream. Vorrebbe Aronofsky parlare di immortalità, ma compie scelte suicide, con una poetica che accumula bivi e manca la strada e uno stile che finisce per vanificare la pregevole scelta di utilizzare microfotografie e trucchi "in camera" anziché la solita CGI. Veniamo alla storia, almeno proviamoci. Lei (la Weisz è compagna del regista) è afflitta da male incurabile, lui non sa farsene una ragione, cerca la fontana della giovinezza, prima da conquistador spagnolo in trasferta americana, poi da ricercatore medico-scientifico, poi - anzi prima, anzi ora - da spazionauta in posizione del loto, tra nebulose da guardare e cortecce da mangiare. Tanto rumore per nulla, Aronofsky piglia a piene mani e affastella inquisizione, francescani, tai-chi, escatologia e arboricoltura, fa professione di fede New Age, rincorre il sincretismo e spreca interpreti non disprezzabili. Soprattutto, non sa raccontare. Non potrebbe, la storia è tanto confusa e pesante da non riuscire a levarsi dalla carta, quella dello script e quella del libro che la moritura Weisz lascia all'amato.