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Uno sguardo perso nel vuoto, un ragazzo che non sa se credere nel futuro. Si apre così The Wild Pear Tree (Ahlat Agaci) di Nuri Bilge Ceylan, lanciatissimo verso la Palma d’oro. Tutto inizia con un ritorno, come in Nuvole di maggio. Sinan ha finito di studiare all’università e la sua terra natale lo aspetta. I genitori hanno una casa in mezzo a una campagna dai colori accesi, dove muoiono le speranze e restano solo i ricordi. Lui vorrebbe diventare un insegnante, ma anche chi supera l’esame resta disoccupato, in una Turchia logorata dai problemi interni.
Le generazioni passate hanno rubato l’avvenire ai giovani, che sono costretti a vivere nel compromesso. Devono accontentarsi, dimenticare i desideri e abbracciare un presente che non offre nulla. “Studiare è importante, ma questa è la Turchia”, spiega un imprenditore. Sinan vorrebbe abbandonare quei campi, ma non saprebbe dove andare, perché la paura di fallire lo trattiene.
L’immagine è quella di un Paese ancorato alle tradizioni, che non riesce ad aprire la propria mente. “Perché bisognerebbe citare nuovi seguaci del Profeta? I più importanti li conosciamo già”, si chiede un imam alle prime armi. Le regole sono già scritte, non serve cercarne di nuove. Tutti accettano la realtà così com’è, non reagiscono, in balia degli eventi e dell’insicurezza. Sembra di rivedere C’era una volta in Anatolia, in cui un assassino non si ricordava dove aveva sepolto la sua vittima, perché in fondo, in mezzo a quei luoghi fuori dal tempo, tutto resta sempre uguale.
Non c’è progresso, non c’è modernizzazione: per scavare un pozzo si usano ancora pala e piccone, alla ricerca disperata di un po’ d’acqua per coltivare. Ma i protagonisti forse non la troveranno mai, è come se fosse una disperata ricerca di se stessi, un estremo tentativo di dare un senso alla propria vita.
Sinan si rifugia nella scrittura, vorrebbe pubblicare un libro, come ne Il regno d’inverno. In quel film il tema del romanzo era il teatro, in The Wild Pear Tree è il folclore, la storia delle persone comuni, a cui nessuno sembra interessarsi. “La realtà è una sola, è inutile che ti concentri sulla letteratura”, urla uno scrittore locale di successo. A morire è la voglia di vivere, e la sensazione è di essere inutili.
Anche le donne non hanno una loro voce. Una vecchia fiamma di Sinan deve sposare un gioielliere per interesse, e la madre del protagonista non ha la forza di opporsi al marito, un malato di gioco d’azzardo che butta tutto il suo stipendio nelle scommesse. I più deboli non vengono ascoltati, anche se gridano le loro ragioni. Il regista esprime questo disagio con lunghi dialoghi pieni di pathos, con domande infinite alle quali purtroppo non si trovano le risposte.
Gli uomini inseguono qualcosa che non potranno mai ottenere, qualcuno pensa addirittura al suicidio, ma poi prova a reinventarsi, ad andare avanti. E il simbolo della rinascita è quell’albero di pere selvatiche a cui fa riferimento il titolo del film, che non a caso è anche quello del romanzo di Sinan. Magnifico.