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La vita in comune
A Venezia quest’anno c’è la Suburbicon della premiata ditta Clooney-Coen e poi c’è anche la Disperata di Edoardo Winspeare: un ameno paesello del Salento popolato da una manciata variopinta di abitanti e sospeso nell’atmosfera rarefatta di un otium perpetuo. Su tutti spiccano il sindaco Filippo Pisanelli, placido e trasognato nella sua passione per la letteratura, e i fratelli Pati e Angiolino Rrunza, rapinatori a tempo perso e sfaccendati di professione. Un giorno, nel corso di un goffo tentativo di rapina, Pati uccide un cane da guardia. Da quel momento la sua vita subisce una svolta inaspettata che lo porterà a redimersi e a riscoprirsi poeta e filantropo, svolta di cui beneficeranno inevitabilmente tutti gli altri membri della comunità.
Non c’è una categoria precisa in cui incasellare il film: il regista gioca a disfarsi dei vincoli dell’azione proponendo una massa narrativa cangiante, dalla forte connotazione onirica. Prevale certamente il coté commedico con una particolare attenzione realistica sui personaggi, vere e proprie maschere vive, marionette innervate, creature grottesche fatte di pelle, occhi e capelli, che invadono lo schermo con la loro esuberanza fisica e linguistica, danzando, imprecando e regalando momenti di pura comicità.
È presente, inoltre, nel finale una linea di riflessione sul cinema, che Winspeare riproietta ironicamente su di sé, quando i fratelli Rrunza si improvvisano registi e realizzano un’improbabile versione della storia dell’arca di Noé – emblematica la battuta di Angiolino che dichiara di non apprezzare i film in cui non succede niente.
Sullo sfondo una natura mistica, carica di simboli e di epifanie, un ulteriore personaggio che infesta la storia in maniera un tantino indefinita e poco originale.