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Azzurra Mennella e Giordana Marengo in La Vita Bugiarda Degli Adulti. Cr. Eduardo Castaldo/Netflix © 2022
C'è un tormentone che accompagna ogni nuova storia ambientata sotto il Vesuvio, un po’ per mettere le mani avanti e un po’ per cercare di collocarsi nel mare magnum di una tendenza dominante. Quel tormentone è “una Napoli mai vista”.
Quando si tira in ballo questa suggestione si vuole rimarcare la distanza dalla cartolina turistica, la volontà di imporsi sulla rappresentazione più semplicistica, la ricerca di una visione alternativa alla fiera dello stereotipo.
La vita bugiarda degli adulti, la nuova serie tratta dal romanzo omonimo di Elena Ferrante e distribuita in tutto il mondo da Netflix, grida continuamente il desiderio di non voler essere come tutti i racconti napoletani. La collocazione negli anni Novanta è già qualcosa di insolito (repertorio musicale con 99 Posse e Almamegretta, ma spunta pure Peppino Di Capri), l’area narrativa è invece piuttosto comune: il racconto di formazione – e deformazione – di Giovanna, un’adolescente che sente il bisogno di abbandonare le maschere borghesi per abbandonarsi alla vitalità di una vita meno conformista. Ci prova attraverso la riappropriazione di una parente reietta, l’esuberante e scomoda zia Vittoria.
La serie, divisa in sei episodi, non solo sceglie di esaltare l’umidità e le malinconie di una città plasmata dal paesaggio marittimo, ma individua nella verticalità la misura per trasmettere tanto la perniciosa invasività della speculazione (una città che si sviluppa sopra se stessa nascondendo ciò che stona rispetto a un’immagine ripulita) quanto, di convesso, il divario sociale tra una classe in costante ascesa per accreditarsi nel mondo (“Tu non ti sei innamorato di lei, ti sei innamorato di Posillipo!”) e un sottoproletariato che si disperde sul piano orizzontale.
La cosiddetta “Napoli mai vista” non è solo un tema topografico o ambientale ma anche linguistico, che è la cosa più interessante ancorché talvolta decorativa della serie diretta da Edoardo De Angelis e scritta insieme a Laura Paolucci, Francesco Piccolo e la stessa Ferrante. Il dialetto della “città di sotto” è aspro, inaccessibile, divisivo, mentre quello della “città di sopra” sembra una costruzione intellettuale (i genitori della protagonista sono comunisti), un vezzo appreso a orecchio più per posa che per sentimento. È qualcosa che si avverte anche se non si conosce bene la lingua napoletana, sia per come questa differenza viene espressa dagli interpreti sia per come lo sguardo del regista “si poggia” sulle parole: si accomoda quasi pigramente sul fraseggio borghese, si fa sballottare da quello proletario.
L’altra cosa curiosa de La vita bugiarda degli adulti è la reiterazione del mondo al contrario, in particolare all’inizio degli episodi: la pioggia che risale, le onde che rientrano, le palle che arretrano sul biliardo, la cerniera che viene chiusa anziché aperta, i brindisi che retrocedono dopo il cin cin. Segna la volontà di tornare indietro per rifare tutto da capo e al contempo la disperata illusione di poter vivere questo passaggio nella vita reale.
È l’elemento forse più rilevante – se non il solo – che determina l’accesso in una dimensione non propriamente realista, perché il grande limite dell’adattamento è l’adesione a un registro che cerca di mettere insieme troppe cose ma alla fine non sa contaminare le convenzioni del dramma borghese e la calata nel ventre di Napoli. L’allineamento sullo sguardo di Giovanna (la brava Giordana Marengo) non sembra aderire alla sua rabbia ma si limita ad accostarsi all’avventura di un corpo in fieri.
E il coming of age sembra perdere per strada suggestioni edulcorate (la tensione erotica, anche con l’amica e non solo nella nuova relazione col genere maschile) accontentandosi di accompagnare la “morale della storia” più su un piano programmatico che fattuale (si vive secondo natura finché non si elegge la menzogna a cifra fondamentale dello stare al mondo).
In questo senso il cardine del racconto (sei episodi che diluiscono a volte faticosamente una trama esile, perfetta per un film che certamente al momento ha meno appeal di una serie) finisce per sbilanciare l’attenzione narrativa soprattutto sugli adulti, da una parte sull’ora ellittico ora prevedibile ménage matrimoniale e post-matrimoniale dei genitori (Alessandro Preziosi e Pina Turco) e dall’altra su una presenza, la zia, che finisce per essere meno dirompente di quanto si preannunci.
Che Valeria Golino sia davvero in forma è indubbio, ma ci sembra che la sua Vittoria sia vittima di una scrittura viziata da una visione “dall’alto”, ridotta a figura inevitabilmente e superficialmente terapeutica al servizio di una ragazza bisognosa di pulirsi della tossicità borghese. È come se gli autori avessero voluto lasciarsi travolgere dalla veracità di un popolo passionale senza la capacità di entrare in collisione col suo cuore e di seguirne il battito. Una Napoli mai vista che, nei fatti, finisce per essere la copia di altri riassunti, un’ambizione mal riposta.