Alla fine, sono più i motivi di delusione che le ragioni d’interesse. La vita accanto di Marco Tullio Giordana – presentato fuori concorso al Locarno Film Fest e in sala dal 22 agosto – si muove lungo il crinale sinuoso della mediĕtas cinematografica italiana, soffocando anziché esaltando i piccoli fuochi d’irrequietezza covati dal romanzo di Mariapia Veladiano. Rispetto al quale il trattamento di Marco Bellocchio, Gloria Malatesta e Marco Tullio Giordana opera un aggiustamento prospettico, che si rivelerà tradimento decisivo.

Ambientato a Vicenza in un’epoca definita ma non connotata – siamo nei primi anni Ottanta del Novecento, ma dal decor aristocratico dei palazzi e dallo sfarzo cerimonioso degli abiti, potremmo tranquillamente trovarci nella medesima decade del secolo prima – è la storia di una famiglia altoborghese segnata dall’improvvida venuta al mondo di una bambina assai brutta. Un marchio d’infamia alla rispettabilità e alla decenza di classe che farà da detonatore della crisi dei diversi personaggi. Se il romanzo della Veladiano sposa il punto di vista della sfortunata protagonista, Rebecca, finendo per rovesciare la dialettica scopica tra mostruosità (oggi diremmo diversità) e normalità – la realtà guardata dal mostro si rivelerà anche più mostruosa – il film di Giordana ha il passo del feuilleton corale e una presa all’apparenza oggettiva, ma a tratti velata dall’irruzione dell’onirico e praticamente sempre da una messa in scena di maniera. I colori vividi e la lucentezza aggraziata degli arredi e degli oggetti di scena contrastano spesso con lo sfondo plumbeo, la cornice a nero, in una dinamica di ricercata stilizzazione chiaroscurale.

Marco Tullio Giordana sul set de La vita accanto. Foto di Angelo Turetta
Marco Tullio Giordana sul set de La vita accanto. Foto di Angelo Turetta

Marco Tullio Giordana sul set  de La vita accanto. Foto di Angelo Turetta

La logica che presiede alla rappresentazione è coerente, del resto, con la “spaziatura” teatrale del racconto tra dentro e fuori, buio e luce: rifiutata dalla madre a causa del suo aspetto, Rebecca vive confinata a casa, in una prigionia dorata da cui però può guardare al mondo attraverso una prospettiva inedita e rivelatrice. La dialettica tra nascondimento e disvelamento viene poi raddoppiata, sia nel romanzo che nella sua trasposizione, dal talento pianistico della protagonista, che ha la valenza di un risarcimento simbolico un po’ telefonato, un richiamo alla bellezza in termini di cosmesi più che di risoluzione estetica.

Nella versione di Giordana poi la relazione tra essere e apparire ha anche meno ragioni di esistere perché manca – ed è il tradimento di cui sopra - l’elemento mostruoso: Rebecca ha sì il viso deturpato da un angioma ma tutto si può ritenere tranne che la ragazza susciti realmente repulsa. Peccato che il film finga invece di crederci, mantenendo se pure attenuata la dinamica di accettazione/rifiuto. È evidente però che siano altri i nodi focali privilegiati dalla scrittura cinematografica, a partire dall’accentuata attenzione sulla figura della madre e l’incanalarsi su una strada psicotico/onirica di matrice bellocchiana, che la regia di Giordana non riesce a maneggiare a dovere, non trovando mai equilibrio di racconto e cifra personale. Anche per questo, nonostante la buona prova degli interpreti e qualche momento riuscito, La vita accanto è una mezza occasione sprecata.