L’avventurosa storia del cinema italiano è anche – o soprattutto – una storia di produttori e non solo di autori o attori come a molti piace pensare per comodità. I produttori, d’altronde, non sono solo figure fondamentali da un punto di vista economico e finanziario, ma – in particolare nella nostra storia – dei personaggi larger than life.

Il merito principale di La verità su La dolce vita è di aver restituito a Giuseppe Amato un pezzo di quella gloria che da sessant’anni si tende a negargli, per quanto sia noto a molti (perlomeno a studiosi et similia) il suo ruolo fondamentale nella realizzazione del capolavoro di Federico Fellini.

E poi, sì, diciamolo, uno come Peppino Amato non ce l’abbiamo più avuto: tipica dunque singolare espressione del genio partenopeo, nato attore si fece produttore, allestendo capolavori del Neorealismo e bestseller del dopoguerra. Incredibili gli aneddoti (a volte forse un po’ velenosi e però sempre affettuosi) narrati da chi lo conobbe (recuperare la perfida miscellanea di memorie di Dino Risi per riscoprire gustosissimi retroscena), ma, ecco, diamo ad Amato quel che è di Amato.

 

Con lo spirito avventuroso e spericolato che caratterizzava la sua attività, accettò la proposta di Fellini, pur giudicando la sceneggiatura “troppo lunga e costosa”. Mentre i colleghi più blasonati respingevano la follia del maestro riminese (all’apice della sua fase da “solito str…”, come direbbe Alberto Arbasino), Amato a intuire il potenziale incandescente di un film destinato a destare scalpore e scatenare entusiasmi in tutto il mondo. Se c’è una cosa che dal documentario emerge è proprio la capacità di visione della quale era capace un uomo non particolarmente intellettuale, dotato di un raro istinto nel riconoscere cavalli di razza e opere di qualità.

Luigi Petrucci è Peppino Amato in La verità su La dolce vita
Luigi Petrucci è Peppino Amato in La verità su La dolce vita
Luigi Petrucci è Peppino Amato in La verità su La dolce vita

Dietro La verità su La dolce vita c’è Giuseppe Pedersoli, che di Amato è nipote, nato un anno dopo l’uscita del moloch felliniano: il legame parentale gli ha permesso di avere a disposizione documenti inediti e preziosi come la corrispondenza del nonno con il distributore Angelo Rizzoli (che aveva "il cuore nel portafoglio") e Fellini, ma anche la moglie di Peppino (nonché figlia di Bud Spencer), testimone diretta di una storia incredibile.

Un’indagine storico-critica-amorosa fatta di pezzi di repertorio (segnaliamo i duetti con Vittorio De Sica), intermezzi critici (c’è Mario Sesti a guidarci nel labirinto), interviste non banali (perfino la mitica Sandra Milo, di solito un po’ ripetitiva, offre qui qualche ricordo meno scontato) e ricostruzione, con Luigi Petrucci chiamato a restituire corpo e animosità ad Amato.

 

E verrebbe voglia, a partire da questi frammenti, di un film di fiction dedicato alla genesi, alle traversie, al dietro le quinte del capolavoro. Dopotutto, come non restare attratti da una storia che inizia con Padre Pio che benedice il progetto, scandaglia la dialettica tra due tipi di genialità, si scontra con la fine di una collaborazione (amicizia) storica e finisce con un nuovo inizio: La dolce vita fa entrare l’Italia nella modernità. Con molto affetto e senza troppa agiografia, si ribadisce la centralità di Amato nel rendere possibile tutto questo. Fu il suo ultimo, grande film. La sua ultima dichiarazione d’amore al cinematografo.