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La verità secondo Maureen K. © Guy Ferrandis / Le Bureau Films
Un film con Isabelle Huppert è sempre un film su Isabelle Huppert ed è sempre un film di Isabelle Huppert. E ogni suo film – perché poche attrici al mondo possono rivendicare come propri i film che abitano – risponde sempre a una domanda: a che punto si trova la carriera della più prolifica delle dive europee (dodici crediti negli ultimi tre anni, in almeno la metà da protagonista)? E La verità secondo Maureen K. (presentato a Venezia 2022 nella sezione Orizzonti) ci dice che questa splendida settantenne è arrivata a un punto tale di consapevolezza di sé (talento, versatilità, carisma, autorevolezza, cognizione di cosa rappresenta nella storia del cinema: chi come lei?) da convincersi di poter reggere tutto il peso di un film.
Alla seconda collaborazione con Jean-Paul Salomé, Huppert recupera la tendenza al camuffamento kitsch già presente ne La padrina, sfoderando parrucca bionda e rossetto acceso con l’ambizione (vana) di allontanare Maureen Kearney dall’immagine monumentalizzata di Huppert per avvicinarla di più alle fattezze del soggetto originale. Perché il film racconta una storia vera, cioè quella della sindacalista della centrale nucleare di una multinazionale francese che diventa un’informatrice, denuncia accordi top-secret, porta alla luce lo scandalo per difendere oltre 50.000 posti di lavoro e si ritrova legata a una sedia in casa con una lettera A incisa sulla pancia.
Come nella miglior tradizione del thriller paranoico, a mano a mano che procedono le indagini, i sospetti cadono sulla vittima: e se fosse lei la colpevole? Allo stesso tempo, come nella peggior tradizione del cinema civile, La verità secondo Maureen K. si rivela più retorico che efficace, più greve che dirompente, più informativo che avvincente.
Raro caso di film di denuncia contemporaneo (i fatti risalgono a una decina di anni fa) in cui i personaggi mantengono i nomi originali, sulla scia di certi crime politici francesi degli anni Settanta (Il giudice d’assalto, Ragione di stato, I baroni della medicina) e con l’evidente ambizione di bagnare il naso a Costa-Gavras (il titolo italiano evita di tradurre la professione di Kearney e cita esplicitamente Hanna K.), è un film che mette in campo una vicenda piuttosto intrigante affidandosi troppo spesso alla suspense implicita e ai miracoli e alle scaltrezze di Huppert all’ennesimo one woman show.