Un’anziana madre, una figlia adottiva e una nipote. Un marito misogino e violento. Uno Stato repressivo e complice. Un femminicidio irrisolto e insabbiato. È la Teheran secondo Nader Saeivar, che dopo The Alien, scrive a quattro mani con Jafar Panahi (che firma anche il montaggio) La testimone – Shahed. Rigoroso nell’impianto formale – dominano gli interni, simbolicamente bruniti, fotografati da Rouzbeh Raiga – e ardimentoso nella denuncia, desolante nella radiografia sociale, La testimone si offre ai nostri occhi come un pregevole, impietoso, inquietante spaccato dell’attuale condizione femminile sotto il regime islamico.

Film (d'essai) tutto percorso da un senso strisciante di lutto, fa risuonare l’angoscia e la preoccupazione per il futuro delle donne iraniane, ora e ancora maltrattate, sfruttate, umiliate. Eppure Saeivar, con un finale muto, lirico e pregevolissimo, mette da parte la vendetta privata e consegna le speranze di rivoluzione, dignità e riscatto alle giovani. A passo di danza. Nel mentre, però, il presente è ancora violenza, meschinità, omertà, opportunismo, burocrazia colposa, morte, intimidazione, sessismo e psico-repressione.

La testimone
La testimone

La testimone

Lo sperimenta su di sé l'anziana Tarlan che si ritrova ad assistere ad un delitto in casa del rampante affarista Solat, infelicemente sposato con la danzatrice Zara. La donna sospetta che Solat abbia ucciso proprio la sua adorata figlia adottiva, ma egli nega e contrattacca, la polizia la ricatta e la intimidisce, il figlio, appena uscito di galera per debiti, la implora di fermarsi. Tarlan, così, si ritrova sola contro un muro, tutto maschile, che trama per farla desistere e mantenere lo status quo.

Ispirato a fatti realmente accaduti, La testimone sa registrare senza remore tumulti, spinte al cambiamento e lacerazioni del presente in Iran, mostrando nel suo realismo più asciutto, nell’impeto contestatorio e nella chiarezza discorsiva, il volto violento e immarcescibile del fanatismo, le conseguenze psicologiche della vita sotto un (qualsiasi) regime, l'atrofizzazione del pensiero che questa comporta, la rimozione del libero arbitrio, l’isolamento e la delazione che subisce chiunque, sotto tiranni, cerchi giustizia e verità. Saeivar in tanto proibizionismo, però, eleva a potenza l’anelito libertario, l’utopia egualitaria, l’insubordinazione femminile che unisce tre generazioni per scardinare le gabbie di un mondo dove tutto è ancora definito, performato, ritagliato in funzione della soddisfazione maschile.

A guidare la protesta, si staglia lo spirito barricadiero e risoluto di una donna canuta, mirificamente interpretata da una Maryam Boobani contrita e indomita, espressiva al massimo grado negli sguardi e nei gesti. Attrice che, insieme alle altre interpreti principali Hana Kamkar e Ghazal Shojaei, ha recitato senza indossare l’hijab obbligatorio, perdendo così il permesso di proseguire la carriera nel cinema iraniano. Realizzato in Iran in modo clandestino, tuttavia, il film è valso comunque al regista il Premio degli Spettatori nella sezione Orizzonti Extra a Venezia 2024.