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La terra dell’abbastanza è abbastanza un buon film. Anzi, è un buon film. Ha un unico, gravoso problema: essere arrivato tardi sul terreno delle periferie dell’Italia oggi, in primis romana e criminale. Fosse giunto sullo schermo prima di Fiore, Cuori puri, Manuel eccetera, staremmo parlando di altro, differenti traguardi, diverse accoglienze e, chissà, qualche gridetto al miracolo si sarebbe levato. Invece no, Et in terra pax, Il più grande sogno, Il contagio, Suburra film e serie, chi più ne ha ne metta, hanno colmato l’attese, meglio, riempito gli spazi, e se non La terra il territorio è già stato perlustrato, delimitato, dissodato. Nondimeno, anzi, nonostante questo accodarsi, l’esordio scritto e diretto dai nemmeno 30enni gemelli Damiano e Fabio D’Innocenzo ha elementi di assoluto valore.
I due registi Damiano e Fabio D'InnocenzoLa fotografia di Paolo Carnera, che è tallonamento parziale (inquadrature ravvicinate), indefesso e totalizzante, le scenografie (Paolo Bonfini) da paradigma iperrealistico, i costumi (Massimo Cantini Parrini), la regia più che la sceneggiatura e, infine, loro i protagonisti, Matteo Olivetti, che vediamo per la prima volta, e Andrea Carpenzano (Tutto quello che vuoi, Il permesso).
Sono bravi anche i comprimari, Max Tortora e Luca Zingaretti, e c’è la conferma di quanto Milena Mancini sia poco e male utilizzata dal nostro comparto, perché qui nell’occhio per misura e forza, insomma, parlasse d’altro La terra dell’abbastanza, prodotto da Pepito Produzioni (Agostino Saccà) con Rai Cinema e il sostegno del Mibact e Regione Lazio, avrebbe strada e plauso spianati, viceversa, dopo la prima a Berlino 2018 (Panorama) ha faticato a trovare distribuzione.
“Con questo film volevamo raccontare com’è maledettamente facile assuefarsi al male”, dicono i D’Innocenzo: “In un mondo in cui la sofferenza è sinonimo di debolezza, i nostri protagonisti si spingeranno oltre il limite della sopportazione: vedere fin dove si può fingere di non sentire nulla”. Molto giusto, molto estendibile: che cos’è l’indifferenza se non la grammatica prima delle relazioni qui e ora? Che cos’è, l’indifferenza, se non il sesto senso del sopravvivere e sopraffare oggi?
A non sentire nulla sono Mirko (Olivetti) e Manolo (Carpenzano), bravi ragazzi di borgata finché nottetempo non investono un uomo e scappano: “fortuna” vuole, era il pentito, alias l’infame, pronto a inchiodare alle proprie responsabilità il clan di zona, sicché prima Manolo, spinto dal padre (Tortora), e poi anche Mirko entrano nelle grazie del boss (Zingaretti)…
Bel tappeto sonoro, e musicale, di Toni Bruni, bel passo a uno in una periferia che è prima di tutto morale, La terra dell’abbastanza offre sequenze disturbanti – il sesso del vecchio pusher con la ragazzina, la festa di compleanno munificamente rovinata da Mirko, il traffico di esseri umani – perché immediate, senza filtri, “vere”, ovvero scippate all’edulcorazione del cinemino nostro sul tema: qui c’è sporcizia, nitore, dolore, negli occhi, volti e gesta amorali e alegali e vitali – come respirare, come bere un bicchier d’acqua portano la morte – di due messaggeri di morte per riflesso incondizionato.
E’ film poeticamente, leggi sociologicamente, scomodo; straordinariamente girato, per essere un esordio; assai perfettibile, per drammaturgia. Pertanto, ancor più prezioso: ne sentiremo parlare, di questi D’Innocenzo, perché mettono in scena con una sicurezza, anche negli errori, una assertività e una lucidità ammirevoli. Soprattutto, declinano pistola alla mano il ritratto di una gioventù che sa andare oltre, superarsi, negarsi in un movimento da fermo, un surplace, molto preciso, molto sintomatico. Si capisce qui, e bene, il perché della diversità poetica, della non addomesticabilità al genere, dello scarto tra quel che appare e quel che è: sotto le mentite spoglie del romanzo, pardon, saggio criminale, c’è molto di più, c’è un’idea di cinema ambiziosa, una tensione formale non doma, un anelito di libertà in catene. Vedere per credere.