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Nel Bel Paese, notoriamente nazione di eterni insoddisfatti, il mito di una Scandinavia felix, realizzatrice dei sogni e bisogni dell’individuo, è fortemente radicato. Proprio per questo motivo gli italiani, forse più di altri, potrebbero trovare illuminante questo bel doc di Erik Gandini, già autore di Videocracy, inteso a decostruire, per quanto con leggerezza di toni, l’immagine candida dell’Eldorado burocratico e sociale svedese.
Il modello sociale su cui la Svezia ha puntato da almeno mezzo secolo è improntato all’indipendenza dell’individuo che ha, per corollario, la necessaria dissoluzione dei legami di dipendenza: figli-genitori, mogli-mariti, anziani-giovani. L’indipendenza così raggiunta dovrebbe essere garanzia di sincerità assoluta tra le relazioni sociali. Tuttavia, come si chiede a un certo punto del film una funzionaria statale, a che serve essere economicamente indipendenti se non si è felici? A che giova ricevere assistenza medica dalle istituzioni se poi si rimane soli ad affrontare la malattia?
Lo sguardo di Gandini è partecipe e implicitamente giudicante, lascia sfilare dinanzi ai nostri occhi episodi agghiaccianti: la banca del seme attraverso cui le emancipate donne svedesi possono comodamente auto-fecondarsi tra le pareti domestiche una volta scelto lo sperma maggiormente “affine”; l’agenzia statale che si occupa di liquidare l’eredità dei tanti, troppi anziani morti soli nei propri appartamenti; l’apartheid legalizzato dei profughi siriani che si chiedono l’utilità di imparare lo svedese anche in mancanza di contatti diretti con gli svedesi stessi, lontani fantasmi persi sotto i cieli eternamente grigi delle loro città ordinatissime e asettiche.
A far da contrappasso alla via svedese alla felicità è il bilancio di una vita spesa in favore delle povere popolazioni etiopi, la vita di un medico svedese da anni trapiantato in Africa e la cui conclusione è senza appello: la sofferenza e la condivisione della vita da parte della popolazione locale è di gran lunga preferibile, in quanto irrimediabilmente umana, alla gelida, robotica perfezione dell’organismo sociale svedese. Un’intervista al celebre sociologo Zygmunt Bauman, infine, è la chiosa migliore che si potesse sperare, con la sua lucida e impietosa riflessione sulla disfunzionalità del concetto integralista di “indipendenza”, a un’indagine antropologica che lascia sconcertati per la glacialità di un quadro documentato senza sconti e con estrema precisione.