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La strada di Levi
Davide Ferrario viaggia con Primo Levi, per 6.000 chilometri, attraverso Polonia, Ucraina, Bielorussia, Moldavia, Romania, Ungheria, Slovacchia, Austria, Germania e, infine, Italia. A sessant'anni di distanza, il regista ripercorre il tragitto compiuto da Levi dopo la liberazione dal campo di sterminio di Auschwitz il 27 gennaio 1945. Un viaggio lungo dieci mesi, poi riversato ne La tregua. Presentato in concorso alla Festa del Cinema di Roma, La strada di Levi è una docu-fiction, che utilizza quella tregua, tra Seconda Guerra Mondiale e Guerra Fredda, per inquadrare la tregua odierna, sospesa tra la caduta del Muro di Berlino e l'11 settembre 2001. Il problema che i luoghi di quella tregua non sono quelli di questa: qual è il tramite, il passaggio di senso, tra le immagini di Ground Zero che aprono il film e il successivo dipanarsi nell'Est europeo? Ovvero, il fondamentalismo islamico, la guerra preventiva al terrore e l'adombrato scontro di civiltà in che relazione stanno con il regista polacco Andrzej Waida che porta Ferrario a visitare l'accaieria di Nowa Huta, voluta dal regime comunista negli anni '50; l'omicidio del cantante Igor Biloriz a L'viv in Ucraina; il gulag di Novograd-Voljinsky, Chernobyl e la città fantasma di Prypiat in Bielorussia; migranti moldavi, operaie rumene, un gruppo di neo-nazisti in Germanie e, infine, Mario Rigoni Stern? Ben musicato da Daniele Sepe, contrappuntato dai passi de La tregua e da immagini di repertorio di Levi (e non solo), ben fotografato da Gherardo Gossi e Massimiliano Trevis, La strada di Levi sbanda, si infila in vicoli ciechi (il passaggio in Ucraina), divieti d'accesso ermeneutico (i neo-nazisti in Germania), ma soprattutto non spiega l'iniziale inversione a U, ovvero la volontà di cercare negli stessi luoghi le risposte a problemi diversi. Il film passa l'esame, le intenzioni che lo muovono no.