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Abou Sangare in La storia di Souleymane
Boris Lojkine non dimentica mai di essere stato un documentarista: tutto, nei suoi lavori di fiction, ci dice che non si può prescindere dal reale, dal mondo che ci circonda e dalle persone che ci passano accanto spesso senza la dovuta attenzione. Da qui parte La storia di Souleymane, la sua terza incursione nel cinema narrativo dopo Hope e Camille, che ancora una volta si mette affianco a personaggi che sono protagonisti e testimoni di un’odissea.
Se il debutto seguiva il drammatico viaggio della speranza di due giovani nigeriani diretti in Europa e l’opera seconda si concentrava sulla fotoreporter Lepage, testimone delle guerre civili ignote all’occidente e uccisa nel 2014, stavolta il percorso è urbano, racchiuso in quarantotto ore piuttosto imbarazzanti e impietose per la coscienza dell’Europa.
L’aderenza con la realtà è avvalorata dalla scelta del protagonista: Abou Sangare (premiato per la miglior interpretazione a Un Certain Regard a Cannes 77, dove il film ha ricevuto anche il Premio della giuria) e il personaggio titolare sono entrambi “sans papier”, migranti senza documenti. Non riveliamo il destino di Souleymane ma quello del neoattore, arrivato in Francia nel 2017, sì: la prefettura gli ha negato i documenti, adducendo un’insufficiente integrazione nel paese d’accoglienza, e solo dopo il riconoscimento a Cannes e molte insistenze del regista il giovane ha potuto depositare una nuova domanda.
In questo senso, nella storia di Souleymane c’è una storia collettiva, quasi un sequel ipotetico di Io capitano: ragazzo della Guinea, rider che lavora tutto il giorno con l’account di un’altra persona (lo sfruttamento è molteplice: il capitalismo che divora, l’azienda senza sensibilità per i diritti umani, il migrante con i documenti che si serve di quello senza), potrebbe essere chiunque e nessuno.
Più passano i minuti, più si accumulano ostacoli e disgrazie, più Lojkine tallona il suo povero cristo e più ci chiediamo perché Souleymane stia combattendo per sopravvivere in un mondo civilizzato ma incivile, pieno di ingratitudine e indifferenza, razzista nonostante il multiculturalismo, dove la solidarietà è un concetto perduto (i migranti legali che chiedono il pizzo) e l’ultimo residuo di umanità è appaltato a una funzionaria che non può chiudere gli occhi né di fronte alle menzogne né al cospetto della disperazione.
Più neorealismo radicale che nuchismo posticcio, è cinema del reale restituito attraverso una narrazione avvincente e implacabile benché non priva di qualche schematismo. Con un finale straordinario in cui l’autobiografia irrompe senza annunci e la ricerca dell’identità si configura concretamente nella richiesta dei documenti e simbolicamente nell’intervista in cui si costruisce una verità fittizia che non è all’altezza di quella vera.
Un processo che sottolinea quanto Lojkine adotti un focus individuale per dare conto di una questione più complessa. E il suo film è onesto quanto basta per evitare il rischio che hanno corso altre storie sul tema, per esempio eccedendo nel compiacimento favolistico a uso e consumo dello sguardo occidentale.