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Jasmine Trinca e Christian Liberti in La Storia (Iacovelli/Zayed)
A volte l’attualità offre convergenze inaspettate e così La Storia ha iniziato il suo percorso sulla tv lineare (Rai 1, prima serata, due episodi per quattro lunedì di gennaio) e su piattaforma (RaiPlay, boxset completo già disponibile) nel giorno in cui è esploso il caso di Acca Larentia, dove nostalgici di destra (leggi: neofascisti) hanno commemorato tre ragazzi del Fronte della Gioventù morti nel 1978, due uccisi per mano dell’estrema sinistra e uno negli scontri con le forze dell’ordine, urlando “presente” ed esibendo il saluto romano. Ora, nessuno contesta il dovere del ricordo, figuriamoci, né siamo così miopi da pensare che sugli anni di piombo ci sia una memoria pacificata.
Detto ciò, è interessante vedere le immagini inquietanti della parata destrorsa in parallelo con la serie, perché le risonanze sottolineano l’importanza didattica dell’adattamento del romanzo di Elsa Morante, acuiscono il suo impatto sul pubblico, ne rivendicano una necessità divulgativa. La finzione dialoga con la cronaca, come nel momento in cui gli alunni fascistelli minacciano il professore accerchiandolo con i banchi mentre alzano le braccia tese, ma anche in uno scambio di battute tanto semplice quanto efficace (“Sono ragazzi!”, “No, sono fascisti”). E colpisce che questo avvenga grazie al recupero di un romanzo-totem, scritto nel 1974 da una maestra della letteratura che militante politica non lo è mai stata e che pensò al suo penultimo libro in termini essenzialmente popolari (prima edizione subito in tascabile, brossura e a basso costo, proprio per raggiungere più lettori possibili: un caso letterario che in poco più di un anno ha venduto un milione di copie).
Nonostante il successo di pubblico, la commozione di Natalia Ginzburg, l’ammirazione di Anna Maria Ortese e la difesa di Cesare Garboli, La Storia fu contestato dalla critica di sinistra: Asor Rosa evidenziò il kitsch da kolossal cinematografico, Romano Luperini condannò l’impianto ideologico piccolo borghese, Enzo Siciliano (sodale di Moravia, ex storico di Morante) lo stroncò, Pier Paolo Pasolini (che della scrittrice era amico) ne sentenziò il fallimento perché era “tre libri insieme”.
Questo per dire che, no, La Storia non è Uomini e no, non è organico a un’ideologia, non è emanazione di un partito. Ed è forse questo il suo potere nascosto, ciò che ancora oggi lo rende un testo fondamentale del Novecento tutto e non solo italiano: raccontare “uno scandalo che dura da diecimila anni” (così il sottotitolo della prima edizione), cioè il potere (politico, economico, sociale, ma anche inteso come destino) che distrugge le persone, attraverso la storia di una famiglia monogenitoriale segnata dagli eventi della Seconda guerra mondiale.
Mezzo secolo dopo, in tempi più fluidi e meno settari, possiamo dire che La Storia è sopravvissuto ai suoi recensori e la trasposizione seriale assomiglia – in modo anche semplificato, certo – a ciò che auspicava Morante: si mette ad altezza di spettatore, sposa consapevolmente e quasi spudoratamente quella dimensione da feuilleton contestata dai detrattori, cavalca il mélo popolare in modo talmente spericolato da “semplificare” il paesaggio politico.
La Storia restituisce un secolo – e non solo – abbracciando meno di un decennio, tra il 1938 e il dopoguerra e passa attraverso il vissuto di Ida Ramundo vedova Mancuso, insegnante di origini calabresi, ebrea per parte di madre e trapiantata a Roma con il figlio adolescente, Nino, affascinato dal fascismo, che dopo essere stata stuprata da un soldato tedesco ubriaco dà alla luce Giuseppe detto Useppe, con cui finisce sfollata in seguito al bombardamento del quartiere San Lorenzo, mentre Nino prima diventa partigiano e poi si dà alla borsa nera.
A firmare la regia è Francesca Archibugi, che un moloch letterario l’aveva già toccato (Renzo e Lucia, sottovalutata versione antiretorica dei Promessi sposi), qui intelligentemente più illustrativa che didascalica, e anche sceneggiatrice con Ilaria Macchia, Francesco Piccolo e Giulia Calenda, nipote di quel Luigi Comencini che nel 1986 realizzò la prima trasposizione seriale del romanzo nonché co-autrice di C’è ancora domani. Che – e ci risiamo con le convergenze – ha molto a che fare con La storia, dalla centralità di una figura femminile che subisce i soprusi degli uomini alla rappresentazione di una Roma popolare piena di soldati americani (“Mamma, ma quello è marrone” dice Useppe alla vista di un afroamericano) passando per le rimasticature realiste che non citano il cinema che fu ma lo ripropongono come un “digest” (e c’è anche Romana Maggiora Vergano, figlia nel film di Paola Cortellesi e qui ragazza di Nino).
E se l’avvio non è dei migliori, con una confezione più vicina a quella degli sceneggiati da studio (esterni che sembrano interni, lontani dal ripensamento teatrale delle scenografie de L’amica geniale, una fotografia forse fin troppo livellata), e otto episodi sembrano forse un po’ troppi, è con la tragica scena della violenza (piuttosto forte per una prima serata Rai) che la serie comincia a trovare una voce, grazie a un’aderenza con il volto a mano a mano sempre più tormentato di Jasmine Trinca, tra tormenti e denutrizione, perfettamente calata nella parte (alla definitiva prova pop).
L’epifania è l’apparizione alla finestra di Useppe, un po’ per la magnifica scelta di casting (prima Christian Liberti, poi Mattia Basciani, entrambi con due occhioni che contengono la bellezza e il dolore del mondo, lo stupore e la predestinazione) e un po’ perché Archibugi sa dirigere meglio i bambini degli adulti. Al di là di qualche approssimazione, non mancano i momenti strazianti, in primis il bombardamento, e ogni personaggio lascia un segno, da Elio Germano come eroico Cucchiarelli ad Asia Argento prostituita di borgata, passando per Antonella Attili, Giselda Volodi, Anna Ferruzzo, Carmen Pommella, Lorenzo Zurzolo, l’inedito Francesco Zenga fino a Valerio Mastandrea, carismatico e autorevole oste a cui basta osservare per capire.
Poi, per carità, il sentimentalismo è anche una scelta di campo e l’innovazione è un’altra cosa, ma è televisione popolare e civile, che mette da parte la consolazione e spiega senza fare spiegoni. Niente male per questo servizio pubblico.