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La stanza degli omicidi
Il senso del titolo si capisce solo nel finale, ma non è che serva uno sguardo tanto smaliziato per intuire dove voglia andare a parare La stanza degli omicidi, opera seconda di Nicol Paone, già caratterista e sceneggiatrice. A suggerire qualcosa è il casting di Uma Thurman e Samuel L Jackson, che sulla carta allude all’universo tarantiniano, anche se, insomma, il tono è evidentemente in minore, non solo sul piano dell’umorismo nero ma anche su quello della confezione (nonché sull’appeal: la rediviva Thurman gioca sopra le righe, Jackson gigioneggia con una barba posticcia).
Paone fa incontrare due mondi teoricamente lontani, l’arte contemporanea e la criminalità, l’una presidiata da Thurman, gallerista Adderall addicted e sul baratro finanziario, e l’altra da Jackson e Joe Manganiello, entrambi al soldo della mafia e impegnati nel riciclaggio. Di fronte a un bivio, i tre svoltano e mettono su un’improbabile ditta: poiché Thurman ha bisogno di qualcosa di valore da vendere, Manganiello decide di dare sfogo alle sue doti artistiche nascoste e crea un dipinto che viene rapidamente acquistato per una cifra esorbitante dando così vita al misterioso artista che si cela sotto lo pseudonimo The Bagman, misteriosa rising star che attira subito l’attenzione dei media e dei compratori. Da qui si innesca un piano che culmina nella (spoiler) performance del titolo, con i sacchetti della spesa che da armi del delitto diventano pezzi da collezionismo.
Se come commedia nera le intenzioni non corrispondono ai risultati e l’acidità finisce per essere una posa più che un’attitudine, come satira sull’arte contemporanea è superficiale, una specie di bignami del pur sopravvalutato The Square. Thurman ci crede fino a un certo punto (c’è anche sua figlia Maya Hawke), Jackson si limita alla macchietta (può bastare la curiosità di un afroamericano che conosce la lingua yiddish?), Manganiello è talmente privo di carisma da risultare decorativo. Qua e là qualche slancio ironico e qualche apparizione curiosa (lo spacciatore goffo), ma il passo è fiacco e i cliché abbondano. Più che un b-movie, un direct-to-video.