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La solitudine dei numeri primi
Tacciato di furbizia prima ancora di arrivare a Venezia, l'adattamento de La solitudine dei numeri primi - dal best seller di Paolo Giordano - è invece un lavoro coraggiosissimo, destinato probabilmente a piacere più alla critica che ai fan del romanzo.
Spiazzante l'operazione, che trasforma uno dei maggiori successi editoriali degli ultimi anni in film ostico, sospeso, che si disfa immediatamente del realismo narrativo per riflettere sui meccanismi e il funzionamento della buona riduzione cinematografica. Il tema vero insomma è la traduzione, il lavoro sui codici nel rispetto di un'intenzione originaria, a cui Costanzo restituisce sfumature di senso, colore emotivo e atmosfere, liquide e bluastre.
Così la storia di Alice e Mattia - sei gli interpreti, tutti bravi, che si fanno carico della coppia di protagonisti in età diverse: Alba Rohrwacher e Luca Marinelli nella maturità (lui ha messo su 15 chili per la parte, lei ne ha persi 10), Arianna Nastro e Vittorio Lomartire nell'adolescenza, Martina Albano e Tommaso Neri da piccoli - e della loro incapacità di adattarsi al mondo, complice un'infanzia funesta, viene messa in scena con un gusto per l'astrazione inedito nel nostro cinema, dove traiettore soggettive e macerazioni personali corrispondono a precise opzioni di linguaggo. Puro esercizio di forma? No, perché Costanzo costruisce un'estetica funzionale all'etica del racconto, e "vede" quello che il romanzo attinge dalla storia segreta di due anime. I mostri non albergano più all'interno, ma si riversano fuori: mostruoso è il contesto, anzi horror - come musiche (c'è anche un inedito dei Goblin), luci e omaggi (da Argento a Polanski) s'incaricano di rivelare - e mostruosi sono i corpi, tagliati e sbilenchi, smagriti e imbolsiti, mai in armonia col mondo, e dal mondo offesi, disarticolati.
Il "vedere" del film si situa tra il racconto in prima persona e quello in terza, un modo di enunciare che non è né oggettivo né soggettivo ma sta in mezzo, sulla soglia del dentro e del fuori, incollato all'occhio inerte di personaggi incapaci tanto di rivolgersi all'altro quanto di scrutarsi a fondo. Un'esistenza, la loro, prigioniera di un momento, perciò congelata in un presente immobile, "montata" senza flashback nè cornici temporali. Un tempo-flusso che nasconde scarti ed evoluzioni, prima di richiudersi in un gesto di resa (il capo della Rohrwacher che si ripiega su Mattia, nel finale) che è insieme riconciliazione col passato e annuncio di un futuro che inizia. L'emozione può allora prorompere dalla materia-forma del film. E da lei liberarsi. Ma nel frattempo Costanzo ha riscritto il romanzo con la lingua del cinema.