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La sindrome degli amori passati
La via francofona all’high concept d’autore: storia riassumibile fino alla stilizzazione, categorie valoriali ben riconoscibili, confezione occhieggiante, target specifico ma non esclusivo. E un titolo che vale metà del lavoro: La sindrome degli amori passati, dove la traduzione italiana è letterale, mentre l’edizione americana ha scelto The (Ex)perience of Love, altrettanto evocativo ed efficace. Tant’è che non si fa troppa fatica a immaginare un futuro remake oltreoceano, con quella patina indie più sulle che tra le righe. E con il ricorso a Immensità di Andrea Laszlo De Simone, forte di un pop sinfonico che spalanca le porte alla nostalgia, capiamo benissimo di stare dentro un certo cinema d’autore che ormai si affida d’istinto al cantautore torinese (l’hanno già fatto Christophe Honoré, Thomas Cailley, Bertrand Bonello, Giuseppe Piccioni ma anche Michele Riondino e Amanda Sthers).
All’opera seconda dopo il mirabile, ironico e malinconico La folle vita, i belgi Ann Sirot e Raphaël Balboni fanno uno scatto oltre il realismo, mettono da parte l’attualità trasfigurata nella riflessione sull’essere genitori (una giovane coppia cerca la gravidanza e trova la demenza della mamma di lui: la metafora è servita) ed affrontano un altro fantasma contemporaneo: l’impatto del passato in un’epoca in cui non riusciamo a liberarci delle esperienze pregresse, un po’ perché salvate nelle memorie esterne che appartengono a tutti e un po’ perché spaventati da un futuro che non è all’altezza dei nostri sogni. Sirot e Balobini operano allo stesso modo: esplorano qualcosa che trascende il presente per posizionarsi al di là delle contingenze temporali.
È tutto nel titolo: la malattia in questione è quella di cui soffrono Rémy e Sandra, altra coppia che vorrebbe suggellare l’amore con un figlio che proprio non ci pensa ad arrivare e che, come nel citato esordio, rivela un inceppamento se non della memoria perlomeno del pensiero. È il loro terapeuta a prescrivere l’assurda cura scientifica (in questo senso è quasi una variazione sci-fi, magari una distopia intellettuale): solo andando a letto ancora una volta con ognuno dei loro precedenti amanti potranno guarire.
Va da sé che il meccanismo funziona perché accende identificazione e coinvolgimento: l’infedeltà programmata che diventa l’improbabile antidoto al coronamento della fedeltà, la cura prescritta per tornare a galla che si configura come una seduta spiritica che potrebbe farci annegare nell’oceano delle incertezze, il catalogo dei corpi ritrovati e perduti come una galleria delle nostre storie brevi mai rimosse (tuttavia “In fondo, perché no? Potrebbe farci male un tot”, come dicono in un tormentone estivo).
L’obiettivo è anche politico, perché i film sull’amore o sono politici o non sono: il dovere dell’esclusività relazionale e il diritto alla riproduzione possono stare insieme? Si può avere l’una senza aver fatto i conti con i contraccolpi dell’altra? L’eteronormatività è un tabù irrinunciabile? Come ci si posiziona rispetto alle fantasie sessuali che si annidano inconsciamente nelle pieghe dei ricordi? Il gioco (di ruolo e di società) è interessante e sfizioso, peccato che Sirot e Balboni restino un po’ accomodati sulla superficie surreale, esasperando lo sperimentato repertorio di jump-cut e lampi demenziali senza incaricarsi completamente delle premesse iniziali, scoprendosi ridondanti anziché leggeri come una storia del genere e il suo tono bizzarro richiederebbero.