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La siciliana ribelle
Un paesino della Sicilia, metà degli anni '80. Rita Mancuso (Veronica D'Agostino), figlia di un uomo d'onore del posto, assiste impotente all'uccisione del padre. Sei anni dopo la stessa sorte tocca al fratello di Rita, Carmelo (Carmelo Galati). Decisa a vendicarsi si presenterà al procuratore antimafia di Palermo con le prove necessarie per incriminare l'intera "piovra" locale. Dovrà però fare i conti con le minacce dei boss, il ripudio della madre (Lucia Sardo) e le difficoltà di adattamento alla vita da testimone protetto... Per l'esordio nel lungometraggio il palermitano Marco Amenta riprende il soggetto di un suo documentario, Diario di una siciliana ribelle (1998) - sulla tragica vicenda di Rita Atria, una ragazza di 17 anni che si dissociò dalla famiglia per diventare collaboratrice di giustizia di Borsellino e morire suicida una settimana dopo l'uccisione del giudice -, trasformandolo in un film di finzione, dove cambiano i nomi dei personaggi reali e alcune situazioni, ma rimane intatto l'obiettivo di fondo: ricostruire la memoria di un personaggio unico nella storiografia mafiosa e farne il testimone esemplare di un riscatto. Amenta si riallaccia alla doppia tradizione del cinema d'impegno civile e dei mafia movie italiani, respingendo però come Gomorra ogni fascinazione per i gangster e introducendo in un immaginario logoro una figura inedita, quella di un'affiliata (ma dalla fedina penale pulita) che decide di ribellarsi e passare dalla parte della giustizia. Sulla carta interessante, l'operazione non mantiene però tutte le promesse. Amenta non è riuscito a infondere al racconto una sua cifra personale, appiattendo immagini e sintassi su una discorsività di matrice televisiva. A dispetto poi degli elementi di novità della storia, il film procede per accumulo di cliché e situazioni tipo - la rappresentazione del côte criminale è banale e simile a tante altre, mentre la via crucis dei testimoni di mafia era stata restituita con maggiore efficacia dal Testimone a rischio di Pozzessere -, segnando un passo indietro rispetto all'evoluzione del genere portata avanti da altri registi italiani (Capuano, ad esempio). Ma a mancare più di ogni altra cosa alla Siciliana ribelle, è una definizione forte della protagonista. Se la Rita di Amenta "reagisce" più che agisce, non è per via di un destino ineluttabile al quale l'eroina si piega, ma per assecondare gli snodi di sceneggiatura. Il passaggio dalla sete di vendetta al senso di giustizia è repentino e immotivato, il fondamentale apporto della cognata Piera (la moglie del fratello di Rita, che fu la prima in famiglia a pentirsi) omesso del tutto, e il trattamento del personaggio avrebbe rischiesto maggiore adesione psicologica. Non a caso il regista, che fino ad allora aveva liberamente ricostruito e inventato, recupera nel finale i filmini in super 8 della vera Rita Atria e le immagini di repertorio della strage di via d'Amelio: un'ammissione, forse, di quanto inadeguata sia la finzione a risarcire la verità.