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Per il suo esordio sul grande schermo (anzi piccolo: il film è in esclusiva su RaiPlay dal 4 giugno), il regista e drammaturgo Leo Muscato ha scelto La rivincita, un testo di Michele Santeramo (anche romanzo) che ha portato in scena nel 2012.
Com'è già accaduto ad altri teatranti approdati al cinema, Muscato torna su qualcosa che conosce bene, cercando attraverso il linguaggio cinematografo un modo nuovo per esplorare una storia della quale ha piena padronanza.
Sullo sfondo piuttosto sofferto di una Puglia nella morsa della crisi, La rivincita narra le avventure di due fratelli che tentano di districarsi in un contesto dominato da privazioni e difficoltà economiche.
Due poveri cristi, verrebbe da dire: Vincenzo, che non può assecondare il desiderio di maternità della moglie, subisce l'esproprio di un terreno in seguito a un assegno protestato per colpa di Sabino. Sabino, da par suo, deve affrontare i problemi della consorte.
Per far fronte al disastro, per di più intossicato dai rifiuti che avvelenano i terreni, finiscono in mano agli strozzini. E, per non farci mancare niente, s'imbattono anche in un avvocato maneggione. In un'ora e venti si rincorrono truffe, meschinità, miserie sfighe, liti, tradimenti, dolori: ma, alla fine, c'è spazio per immaginare un futuro migliore, per ridere e credere alla possibilità di una speranza.
Una piccola odissea pugliese che, a partire da fatti legati al quotidiano della crisi, costruisce uno spaccato privato che ha l'ambizione di raccontare un pezzo d'Italia precaria e contadina effettivamente non sempre centrale nel nostro cinema recente. Un lessico familiare che vuole emanciparsi dall'autocommiserazione alla ricerca di una cifra formale in grado di intercettare il potenziale grottesco.
E forse sta qui il grosso limite de La rivincita, un po' troppo confuso nell'orchestrare emotivamente l'intreccio nonché incerto e sbilanciato nel tono. Un film che non sempre riesce a convincere nel suo dosare l'aderenza alle viscere del territorio e l'adesione a un registro che cova una coraggiosa ambizione non-realista.
Pur con tutte le attenuanti del caso, resta un'opera prima poco incisiva che probabilmente nel suo passaggio al cinema avrebbe avuto bisogno di uno sguardo diverso, meno legato alla pregressa esperienza teatrale. Del cast originale mantiene Michele Cipriani (Vincenzo), mentre il più famoso Michele Venitucci subentra nel ruolo di Sabino. La tromba di Paolo Fresu arriva troppo tardi.