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Beau ha paura
Un horror divertente, una commedia spaventosa, un incubo surrealista. Il terzo lungometraggio di Ari Aster, regista che con i due precedenti Hereditary e Midsommar si è costruito una pletora non indifferente di affezionati, è un viaggio nel rimosso lungo 3 ore a tratti sorprendente, a tratti sfiancante, capace di spiazzare ma incapace di sedurre a pieno.
Perché Beau ha paura? Per scoprirlo dovremo scendere in questo abisso insieme allo stesso protagonista, un Joaquin Phoenix al solito gargantuesco, onnipresente, che cannibalizza l'intero film e dallo stesso finisce per essere cannibalizzato.
Trasandato e sciatto, Beau vive in un anonimo appartamento di un palazzo che cade a pezzi, mentre lì fuori c'è il finimondo, cadaveri per terra, drogati, ballerini, pazzi omicidi, rifiuti umani di una società che probabilmente non esiste più.
L'uomo ha un aereo da prendere, per raggiungere la madre (Patti LuPone) nel giorno dell'anniversario della morte del padre che lui non ha mai conosciuto, morto in una circostanza - non la sveliamo - che ha segnato per sempre la sua esistenza: pavido e perennemente indeciso, in cura da un terapeuta, Beau finirà per perdere il volo. Ma la sua (e la nostra) odissea è appena iniziata…
Di sicura matrice autobiografica, il film di Aster - che in origine, pare, superava le 4 ore di durata... - nasce da un suo precedente corto di 7 minuti, Beau (2011): scritto, diretto e prodotto dal regista (con A24 ancora una volta alle spalle), è un pamphlet dilatato e deforme che dal caos di un presente senza uscita tenta di indagare l’origine di paranoie e sensi di colpa.
Il protagonista è immerso di volta in volta in contesti dove il confine tra il reale e l'immaginato è sempre incerto, si alternano scenari distopici e post-apocalittici ad altri apparentemente più accoglienti (il quartiere della prima parte, la famiglia che lo cura dopo averlo investito, il bosco, la casa materna), si torna alla sua infanzia, alla sua preadolescenza, si cammina in un peregrinaggio fiabesco e oscuro lungo un'intera vita che contrappunta il racconto-nel-racconto di un altro da sé, in cerca di una famiglia realmente mai avuta (o forse sì).
Non sa stare al mondo, Beau, perché il mondo fa paura. Ma è anche tremendamente grottesco, e per questo forse ancora più spaventoso.
Certamente più "sincero" dei suoi due precedenti (Hereditary sempre meglio di Midsommar), il film di Ari Aster ha già fatto gridare al capolavoro ed è stato altrettanto stroncato oltreoceano: come spesso accade, la verità sta (forse) nel mezzo, in quella sottile feritoia che separa la sensazione di ritrovarsi sequestrati e costretti in un pertugio dall’imminente fuga verso un altrove inesplorato.
Assassini in giro nudi (e “circoncisi”), lampadari che spappolano teste, stimati professionisti che accudiscono i bisognosi ma che in realtà li tengono in ostaggio, ex militari tornati a casa in condizioni pietose e sempre votati allo scontro (Denis Ménochet, attualmente nelle nostre sale anche con As bestas), madri incapaci di amare o incapaci di ricevere un amore differente dal proprio, in sintesi “castranti”: non mancano scene e simboli (su tutti un padre-fallo orrorifico) che rimarranno impressi, manca però al film la capacità di rendersi opera che travalichi il confine dello sprazzo, del genio, della trovata, per dirsi realmente compiuta. E per sedimentarsi realmente nello spettatore. Dal 27 aprile in sala con I Wonder Pictures.