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A metà degli anni ‘50, sul palcoscenico e al cinema, l’Oklahoma era la terra del sole per eccellenza, in cui musical e western potevano fondersi in un unico genere, apparentemente ibrido, ma a suo modo affascinante. Il titolo più famoso fu proprio Oklahoma!, e trionfò a Broadway prima di approdare davanti alla cinepresa di Fred Zinneman, uno dei nomi di punta della Hollywood di allora. Nel nuovo film di Tom McCarthy La ragazza di Stillwater, l’Oklahoma è invece una terra di passaggio dallo spirito immutabile. Compare solo all’inizio e alla fine della storia, come luogo simbolico: l’immagine di un’America chiusa in sé stessa che, con le politiche nazionaliste degli ultimi anni, ha perso la sua centralità nel mondo. Non manca infatti un riferimento a Trump e al sistema di voto negli Stati Uniti.
Poi la vicenda si sposta in Europa, e potrebbe ricordare il caso di cronaca nera legato ad Amanda Knox. Una studentessa americana si trasferisce a Marsiglia, dove viene accusata di aver ucciso la giovane con cui condivideva l’appartamento. Finisce in prigione, il padre cerca di starle vicino. Tutti sono convinti della sua colpevolezza, viene condannata, ma cinque anni dopo nuovi sviluppi fanno vacillare le certezze del tribunale.
Matt Damon presta il volto a un padre tormentato, disposto a tutto pur di salvare la figlia. Può essere visto come simbolo di un Paese in crisi d’identità, logorato dai suoi demoni interiori. La ragazza di Stillwater diventa così una riflessione sulla colpa, sul rapporto tra vittima e carnefice. Non solo da un punto di vista umano, ma anche politico. È come se fossero gli Stati Uniti a salire sul banco degli imputati. Culture diverse sono messe a confronto: “A casa tua hai una pistola?”, “Hai votato Trump?”, “Come fai a mangiare quella roba?”. Sono alcune domande alle quali il protagonista è chiamato a rispondere.
Anche le persone che incontra sono il riflesso dei suoi errori, incarnano l’inquietudine, i tormenti, l’animo oscuro e nascosto di una patria flagellata. McCarthy riprende Marsiglia come una provincia lontana eppure uguale a tante altre. I palazzi anonimi delle periferie troneggiano sullo schermo, mantengono viva l’anima criminale del racconto: Il braccio violento della legge sembra aver lasciato le sue tracce. Il ritmo del film è serrato, il regista, come ha dimostrato altre volte, sa giocare con par suo con la tensione. Basta pensare a Il caso Spotlight.
Uno dei pregi di La ragazza di Stillwater è lo spessore dei caratteri, capaci di essere allo stesso tempo paladini e antieroi. In qualche modo Mr. Cobbler e la bottega magica andava visto come una dichiarazione d’intenti. Adam Sandler era un calzolaio dall’animo triste, che iniziava a vivere le vite degli altri semplicemente indossando le loro scarpe. McCarthy segue anche qui lo stesso procedimento: si mette nei panni dei suoi personaggi, si interroga su come possono essere guardati all’esterno, su come può cambiare la loro personalità. L’uomo al centro, con il mondo che va avanti senza accorgersi di quello che gli accade. È significativa in questo senso la sequenza della partita di calcio, sintesi di un film che non svela mai le sue carte, che ama cambiare all’improvviso direzione.
La ragazza di Stillwater si muove tra Mother di Bong Joon-ho, Prisoners di Denis Villeneuve e Il segreto dei suoi occhi di Juan José Campanella. Ma riesce a svelare una forza propria, sincera, e nell’immagine del quotidiano trova la sua originalità. Presentato fuori concorso al Festival di Cannes.