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La quattordicesima domenica del tempo ordinario
Tutti defunti tranne i morti, verrebbe da dire di fronte a La quattordicesima domenica del tempo ordinario di Pupi Avati, ricordando quel tempo (straordinario) in cui era autore corsaro e insolente, più irregolare e spudorato rispetto al venerato maestro che è diventato negli anni. Il tempo scorre e fa male, lo dice lui stesso, senza nascondersi dietro uno sterile ottimismo, e lo fa sin dai titoli di testa che passano in rassegna le foto in bianco e nero della Bologna di ieri, con ragazze in bicicletta sotto le Torri, signore stupite dai nuovi apparecchi televisivi, bambini che mangiano gelati.
È un espediente, quello dell’album fotografico, che torna spesso nel cinema di Avati e sempre in testa al film, quasi fosse una dichiarazione d’intenti (pensiamo a Il cuore altrove e Il papà di Giovanna): più della nostalgia s’impone il rimpianto, l’idealizzazione nasconde l’oscuro, la malinconia cede il passo al dolore, anziché la riconciliazione con il passato c’è il disagio in un presente che non è all’altezza dei sogni.
“Le cose belle son volate via” ripete la canzone firmata da Avati con Sergio Cammariere che fa da leitmotiv al film (la sentiamo troppe volte? Forse sì) e le ragazze, alla fine, sono arrivate. Anzi, una: “la più bella ragazza di Bologna”, altro moloch dell’autore, che su questa figura mitologica ha costruito un’epica di uomini sconfitti e inadeguati di fronte all’incanto di un’apparizione a tratti divina.
Stavolta il loser ha la faccia di Lodo Guenzi, spirito lunare sulla scia di quel Nik Novecento prematuramente scomparso, musicista di belle speranze che si ritrova fallito (altra tipicità dell’archetipo). Da anziano diventa Gabriele Lavia, consumato ed elegante quanto basta, e crede ancora che una canzone possa cambiarti la vita (nello specifico la title track): peccato che quel brano, rieseguito in uno squallido studio televisivo o nel salotto di una casa piena di fantasmi, sia sempre lo stesso, un’estenuante reiterazione del fallimento che rappresenta la fine di tutto. Dell’amore, dell’amicizia, della carriera.
È un film più funebre che senile, La quattordicesima domenica del tempo ordinario, storia di un matrimonio infelice, di un duo destinato alla separazione, di una vocazione schiacciata dagli eventi: Marzio conosce Samuele a scuola, insieme costituiscono i Leggenda, suonano nei localini, sognano il successo, l’amicizia come forma d’amore. Poi Marzio ritrova Sandra, che anni prima aveva cercato di rimorchiare facendole cadere un frappé sul vestito. Lei vuole fare l’indossatrice, non vuole figli (scatenando lo sdegno della giuria del concorso di bellezza) né farsi imbrigliare da colui che diventerà suo marito. Che impazzisce per lei, è geloso marcio, beve troppi whiskey, prende a pugni i maschi che la fissano: è una vita agra, come il film che vanno a vedere al cinema. E Samuele? Alla musica preferisce il posto in banca.
Trentacinque anni dopo Marzio cerca Samuele, gli regala un CD e gli propone un revival, invano: l’amico ritrovato ha altro per la testa. E Sandra? Tutti tornano, prima o poi. E la giovane Camilla Ciraolo diventa Edwige Fenech, in rentrée dopo anni di latitanza sul grande schermo, che resta splendente anche così spenta e dimessa e si porta dietro il peso di una bellezza che è stata capitale umano, sociale, culturale, politico in un contesto dove la bellezza era anche una colpa, un peccato, una vergogna.
E Lavia e Fenech, gli anziani Marzio e Sandra, si incontrano in un tempo che non è quello ordinario (che è il periodo che comprende primavera ed estate, quando ci si sposa e ci si concede il lusso di immaginarsi felici per sempre): il presente è cupo e triste, sormontato da un cielo gonfio di nubi, chiuso tra muri tinteggiati di bianco che occultano i desideri altrui, infestato da fantasmi del passato (il papà mai “vissuto”, la mamma evocata), del presente (l’amico che parla con un figlio già al di là), del futuro (i figli mai avuti che si riverberano in corpi imprevisti).
Marzio e Sandra sono presenze fantasmatiche, completamente a disagio in un presente che sembra respingerli (lui fuori dai ricordi, lei fuori casa), acciaccate dall’età, ferite a morte dalla vita che non hanno vissuto insieme. Certo, quelle disegnate da Avati sono scene da un matrimonio terribile: la morbosità e la gelosia, le ripicche e i dispetti, i tradimenti e le reticenze, due persone così fatalmente incompatibili che si ostinano ad amarsi senza che si colga il motivo (in sintesi: lui la vuole a casa per controllarla, lei non vuole figli e desidera l’indipendenza; tant’è che l’alcolismo Marzio sembra un effetto delle mancanze coniugali di Sandra: già).
Non è un film felice, il quarantatreesimo lungometraggio di Avati, talvolta perfino compiaciuto della propria mestizia, con perplessità sui dettagli (che tipo di musica fanno i Leggenda? Qual è il loro contesto? A che pubblico si rivolgono? Come si collocano nella loro epoca?), qualche impaccio (gli effetti digitali potevano essere più curati, per esempio) e un vago squilibrio tra i due piani temporali, apparizioni un po’ spiazzanti.
Non mancano momenti di verità: Fenech che non riesce a farsi la doccia (idea notevole), Guenzi che reagisce alla rottura urlando in camera da letto, Lavia in chiesa con la chitarra. Cupo con una timida apertura nel finale, è un melodramma scontornato dal passato che, per certi versi, segna per Avati un imprevisto e nascosto ritorno all’horror.