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Peter Eggers in La prova © Nadja Hallström - 2023 Netflix, Inc.
In un’epoca dominata da true crime sempre più incentrati su una spettacolarizzazione morbosa (si pensi al filone “Monsters” di Ryan Murphy, ma non solo), fa abbastanza “rumore” il silenzioso arrivo di una miniserie svedese (4 episodi, su Netflix) che traduce in finzione la vera storia di una delle più lunghe indagini penali (durata 16 anni) portata avanti in Svezia, dal 2004 al 2020, seconda solo al cold case più celebre, quello relativo all’uccisione del premier Olof Palme, avvenuta nel 1986.
Basata sul libro della giornalista Anna Bodin e del genealogista Peter Sjölund (The Breakthrough), La prova – probabilmente il più letterale La svolta avrebbe funzionato meglio – racconta per filo e per segno l’inizio e quel lungo vuoto di una storia che non ha cambiato solamente le vite dei familiari delle vittime, ma anche quella di chi ha messo in discussione la propria esistenza per mantenere la promessa fatta loro quel 19 ottobre 2004, ovvero assicurare alla giustizia l’autore di quel duplice, inspiegabile ed efferato omicidio.
Siamo a Linköping, comune svedese situato nella contea di Östergötland: un bambino di 8 anni di origini libanesi (Mohamad Ammouri, ma nella serie vengono cambiati i nomi di tutti i personaggi) sta raggiungendo la scuola a piedi. Di solito lo accompagna la sorella più grande, ma quella mattina – anche in virtù del fatto che il tragitto è breve e conosciuto – si avvia da solo: lungo la strada viene aggredito da un uomo che lo accoltella più volte. Intervenuta per difendere il ragazzino, finirà uccisa anche la 56enne Anna-Lena Svensson.
Sulla scena del delitto vengono rinvenuti il coltello a farfalla utilizzato dall’omicida e un berretto insanguinato, dal quale gli inquirenti riescono a prelevare tracce di DNA del sospettato.
Oltre a questo, ci sarebbe anche la testimonianza di una passante che rimane pietrificata di fronte a quella scena: la donna sa di aver visto bene il volto dell’assassino ma il trauma vissuto le blocca il ricordo. Solamente più avanti riuscirà a fornire un identikit di massima dell’assassino.
Questi sono gli elementi a disposizione – oltre a migliaia di tamponi effettuati ai cittadini del luogo e il profilo tracciato dagli psicologi forensi (un uomo tra i 15 e i 30 anni, affetto da disturbi mentali) – per dare il via all’indagine condotta da un detective, John (Peter Seggers), dapprima convinto di poter risolvere il caso in breve tempo, poi talmente coinvolto dalla vicenda da sacrificare il suo privato (il matrimonio, il figlio appena nato) piuttosto che darsi per vinto.
Ma gli anni passano – nel secondo episodio della serie si salterà in avanti prima di cinque anni, poi di dieci, per arrivare infine al 2020 – e la promessa fatta a suo tempo ai genitori del bambino e al marito di quella donna – vittime che non avevano nessun legame tra di loro, se non trovarsi nello stesso luogo all’unisono – non è ancora stata mantenuta.
L’aspetto più avvincente di questo format (scritto da Oskar Söderlund e diretto da Lisa Siwe, con notevole commento musicale affidato a Matti Bye) dall’andamento compassato e sussurrato – non ci sono inseguimenti, sparatorie, scene madri, plot twist a buon mercato o cliffhanger – è da ricercare proprio nella natura degli stati d’animo che ne regolano le traiettorie: il dolore autentico, mai gridato, di chi ormai non crede più alla cattura del responsabile, o la tenacia imperscrutabile di un uomo che forse non sa bene più neanche lui perché continuare divengono allora il cardine su cui poggiare questa esplorazione della tragedia umana che affianca gli sviluppi di matrice investigativa. Perché, come da titolo internazionale (e del sopracitato libro), la svolta ci sarà e determinerà tanto la chiusura del caso quanto le ultime due puntate della miniserie: dopo che negli States riusciranno finalmente ad arrestare il “Golden State Killer” ad oltre 40 anni di distanza dai suoi crimini, il detective di Linköping decide di affidarsi alla genealogia genetica (sarà il primo caso in Europa ad avvalersene), rivolgendosi ad uno studioso (Mattias Nordkvist) che contribuirà in modo determinante alla risoluzione del mistero.
Ma sarà un processo non proprio sbrigativo: anche in questo frangente, La prova riesce a metterci in connessione con John, da una parte elettrizzato all’idea che quel metodo possa finalmente risolvere il “suo” caso, dall’altra totalmente incapace di comprenderne la natura e i meccanismi, oltre a tracciare un pericoloso parallelo tra la sua ossessione e quella del genealogista, uomo anche lui che sta pericolosamente rischiando di ignorare i bisogni di una figlia problematica.
Solitudine, disagio mentale: anche nel momento decisivo, al culmine di quel percorso che dovrebbe restituire “pace” e soddisfazione a chi, per così tanto tempo, ha inseguito un obiettivo così importante, il tenore dell’impianto non muta, l’esaltazione per essere venuti a capo di quel mistero c’è (e con essa l’emozione da condividere con quei parenti che, in un modo o nell’altro, sono andati “avanti”) ma resta trattenuta, quasi prigioniera di una gabbia – le varie sfaccettature delle tragedie umane… – dalla quale non è facile evadere.