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La principessa e il ranocchio
Siamo sicuri che se da lassù Walt Disney potesse vedere La principessa e il ranocchio ne sarebbe onorato. Perchè l'ultima creatura degli Animation Studios - fondati quasi novant'anni fa dal padre di Topolino - più che un "ritorno all'animazione tradizionale" (alla matita e al 2D, per capirci), come va dicendo da mesi John Lasseter, è un "ritorno a casa", l'omaggio perfetto alle intuizioni del grande cartoonist americano e ai suoi sogni di adulto-bambino. Il merito più grande da ascrivere ai realizzatori di questo capolavoro (in regia Ron Clements e John Musker, già al timone tra gli altri de La sirenetta e di Aladdin) è l'esser riusciti a catturare lo spirito del vecchio cartoon Disney, l'anima stessa dell'animazione (che è a sua volta ricerca dell'essenza delle cose fuori dal realismo: anim-a-zione).
E' un film-parco questo che, come la Disneyland immaginata da Walt, contiene le storie, le qualità, la musica, le magie, i colori e la forza stessa dei mondi creati dagli Studios lungo tutto l'arco del Novecento. La libera rielaborazione della fiaba dei Grimm (Il principe ranocchio) è poco più di una traccia che si sfilaccia quasi subito, si attorciglia, si perde, rifrange in caleidoscopiche visioni. Che non vuol dire anarchia narrativa, ma libera, appassionata, libertà immaginativa. E' la capacità dei classici: saper circoscrivere il caos dell'invenzione, dare una misura all'allegro disordine.
Il canone qui è la musica, meglio il musical, che apre il tableaux animato a vere e proprie feritoie magnificamente coreografate, fughe nella fantasia dirompente, lembi e volute impazzite di un tessuto che d'improvviso si allarga, si scompone, per poi tornare a sè, composto, lineare, chiaro. Era la vecchia scommessa di Disney: deviare le correnti di arte pura (le immagini ritmiche di Oskar Fischinger) nel mare calmo dell'immaginario popolare. E non c'è niente di meglio del jazz (il film è ambientato nella New Orleans degli anni '20, in piena esplosione socio-musicale, tra jazz, blues e soul), l'improvvisazione in note, per incidere nel suono, accanto e oltre le immagini, la con-fusione di istinto e controllo, irrazionale e reale, impossibile e plausibile.
Lo score di Randy Newman (ottimo) meriterebbe una recensione a parte, così come il lavoro di traduzione - soprattutto canora - realizzato dal doppiaggio italiano, buono ma sempre carente, perché certi film andrebbero visti solo in lingua originale. Soffermiamoci sulla storia invece, arcinota - l'ascesa di una serva grazie all'amore di un principe caduto in disgrazia e trasformato in ranocchio - e insieme brulicante di novità: dalla scelta del "colore" dei protagonisti - complice Obama, è forse l'aspetto più vistoso dell'ultimo film Disney, ma anche il più marginale - al riuscito mix di realismo sociale (a cavallo tra il cliché e il documentario quando contrappone bassifondi neri e regge bianche della Louisiana che fu), ricostruzione d'epoca e immersioni nell'imponderabile: che è insieme l'altro mondo animale - qui la palude e i suoi abitatori - e l'oltremondo spirituale - richiamato dai fantasmagorici rituali voodoo del mostruoso dottor Facilier e della buona Mama Odie.
Come sempre, la Disney riesce a trasformare pianeti paralleli in sfere concentriche, giocando sulle zone di tangenza, sull'amalgama di percezioni altre e caratteristiche umane. Regala personaggi indimenticabili - vedi l'alligatore trombettista Louis (doppiato da Pino Insegno) e la lucciola innamorata Ray (nella versione italiana ha la voce di Luca Laurenti). Passa con disinvoltura da un genere all'altro - dalla commedia all'avventura, dal musical al drama. Evoca l'intera storia emozionale del cinema, ricordandone volti e titoli senza mai citarli direttamente. Riafferma il primato della pittura (certi quadri sembrano disegnati da Toulouse Lautrec) sulla fotografia.
Ridefinisce infine il suo profilo di grande narrazione morale, organica all'America e distinta dal versante maggiormente slapstick e tecnologico dei suoi competitor (Warner prima, Dreamworks oggi). Contro i quali piazza un'altra vittoria senza appello: perché non tutte le magie diventano miracoli. E non sempre i venditori di sogni - come ci ammonisce Facilier - mantengono quel che promettono.