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La primavera della mia vita
Un musicarello? Un po’, però indie. Produce l’attivissima Wildside, certo, ma di mezzo c’è anche la Sugar, nella persona di Filippo e d’altronde i musicarelli nascevano proprio dagli accordi tra le case discografiche e quelle cinematografiche. D’accordo, finché si tratta di documentari che omaggiano carriere di figure legate all’etichetta (la patrona Caterina Caselli, il divo Paolo Conte), ma quella de La primavera della mia vita ci sembra un’operazione diversa, più azzardata, perfino spericolata.
Perché l’intenzione (legittima ed evidente) di rafforzare lo star power di Colapesce e Dimartino, aka i siciliani Lorenzo Urciullo e Antonio Di Martino, outsider assurti a gloria sanremese via Musica leggerissima e tornati quest’anno al Festival con Splash, si incontra con il battesimo cinematografico di Zavvo Nicolosi, pluripremiato regista dei videoclip del duo ma anche di altri esponenti dell’indie italiano (Baustelle, Zen Circus, Gazzelle).
Ma più che alla tradizione decaduta del musicarello – che, tra una canzone e l’altra, mettevano in scena i conflitti generazionali e le mode del momento – La primavera della mia vita (scritto dai protagonisti con il regista e Michele Astori, non a caso co-sceneggiatore di Pif) guarda a Tutto è musica, biografia romanzata e funambolica di Domenico Modugno (che peraltro è uno dei numi tutelari di Colapesce e Dimartino).
In questo caso i due interpretano delle versioni alternative di loro stessi. Cioè due cantautori che, arrivati a un grande successo popolare dopo anni nell’underground, si sono separati burrascosamente, finché Antonio ricompare proponendo a Lorenzo il progetto della vita: un libro sui luoghi leggendari della Sicilia, commissionato ad Antonio dall’Antico Ordine Semenita, ambiguo e sedicente gruppo ambientalista new age. Lorenzo all’inizio diffida, poi capisce cosa c’è in ballo e accetta di seguire l’ex sodale in un viaggio alla scoperta dei luoghi leggendari della Sicilia. Che, va da sé, diventa l’occasione per riconoscersi, scontrarsi, ritrovarsi. Fino a una spiazzante rivelazione finale.
Il road movie è il grimaldello, anzi il pretesto, per innescare il buddy movie che mette in scena la crisi di un’amicizia tra due uomini entrambi colti in un momento di disagio. Lo fa attraverso i colori pop, i costumi rétro, le inquadrature fisse (un po’ tableau vivant, un po’ graphic novel, un po’ post di Instagram), il tono straniante di una commedia che stilizza il mondo per vivere meglio nelle sue contraddizioni, fa slittare una realtà che non ci piace verso la sua rappresentazione surreale.
Il sistema di riferimenti è ampio (Nanni Moretti e Wes Anderson, Il laureato e Ciprì & Maresco, Maurizio Cattelan e il Trionfo della Morte, con Franco Battiato sempre presente), l’esito è simpaticamente derivativo, ma è chiaro che a La primavera della mia vita manchi un po’ di fiato, una collocazione precisa, la capacità di emanciparsi completamente dall’ingombro dell’allegoria (gli alberi che definiscono l’importanza delle radici, le mandorle correlativo oggettivo regionale, le energie cosmiche della natura).
Tuttavia, a suo modo, il gioco funziona anche nella sua ostentata fragilità: del folklore siciliano emerge il portato misterico che sconfina nel buffo, l’ironia sulla mafia come industria (Speedy pizzo, la cena a mano armata) si allinea con le intuizioni di altri autori, l’ossessione per le tasse ricorda le vecchie commedie italiane, la calata negli abissi della memoria riesce a scrollarsi la seriosità dietro l’angolo preferendo suggestioni spiritiche meno autorevoli, gli incontri con un bestiario di varia umanità hanno echi picareschi (appaiono, tra gli altri, Roberto Vecchioni per spiegare, al pianoforte, le origini trinacrie di Shakespeare e Isabel Russinova in doppio ruolo gemellare direttamente dall’aldilà).
E l’apparizione di Madame (altra star della Sugar), che canta la title track, non è solo ipnotica (che carisma), ma funziona come un video del tutto organico al film, con un effetto analogo a quando in Appuntamento a Ischia spunta Mina nel ruolo di se stessa che canta Il cielo in una stanza. Non riuscita, d’accordo, ma è un’operazione curiosa, intrigante, che fa sfociare nel discorso cinematografico qualcosa che alberga altrove ma non lontanissimo (la musica d’autore, il videoclip, l’espressione tramite i social). Se in questo boom della produzione c’è spazio anche per questi film sbalestrati ed eccentrici, insomma, a noi sta bene.