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Marius Bizau con la classe - Foto Ela Francone
“Qui la regola è che nessuno tocca nessuno”. In una scuola superiore di periferia arriva un nuovo professore, Gabriele (Marius Bizău): in attesa di cattedra da sette anni, bosniaco che da ragazzo sapeva “solo menare”, ha l’ingrato compito di tenere un corso di recupero per sei studenti “problematici”.
Lì fuori, intanto, le tensioni aumentano con i migranti del campo profughi, detto lo “Zoo”, situato a pochi metri dalla scuola.
Tratto dalla pièce teatrale La classe di Vincenzo Manna (qui anche cosceneggiatore), il film di Massimiliano D'Epiro - al primo lungometraggio in solitaria dopo Polvere co-diretto con Danilo Proietti - agisce in modo non necessariamente “nuovo” intorno ad un tema, e un ambiente, molto spesso e anche recentemente raccontati dal cinema.
Ciò nonostante, La prima regola sa creare un tessuto in grado di tenere costantemente aperto il dialogo tra il dramma individuale e quello sociale.
Tutti, o quasi, italiani di seconda generazione, i ragazzi - interpretati da Haroun Fall, Andrea Fuorto, Ileana D’Ambra, Luka Chikovani, Cecilia Montaruli, Antonia Fotaras - sono portatori di un vissuto che allo spettatore è dato ricostruire attraverso qualche frammento, parola, senza l’ausilio di passaggi didascalici o scontati.
Entrano ed escono dalla scena (l’unico ambiente che vediamo è la scuola e poco della strada limitrofa) come se si trattasse di un palcoscenico sul quale esprimere di volta in volta le proprie, difficili emozioni.
Il ruolo chiave è certamente quello del professore, ben caratterizzato dalla prova di Bizău, attore di origini rumene qui chiamato ad incarnare un personaggio portatore di “un moto di rivoluzione”, come spiega il regista stesso. Che attraverso lo sguardo di questi ragazzi, tenta di “raccontare la società contemporanea, fagocitata dai facili giudizi, dalla violenza, dai social media, dai movimenti politici, dall’invidia e dalla delusione. È una storia vicino alla nostra ma laterale alla nostra, perché il mondo cambia continuamente.
La periferia è abitata dal 70% della popolazione ed è sempre associata a un senso negativo, ma la periferia è la città che sarà. O non sarà”.
Ad esternare in modo più plateale questo conflitto è Nicolas (Fuorto), con pregiudizi profondamente radicati e portatore di una rabbia, e di una violenza, difficili da tenere a bada.
Senza voler necessariamente giudicare, D’Epiro - anche con il notevole contributo di Boosta dei Subsonica (Davide Dileo all’anagrafe), autore di uno score eterogeneo e magnetico - procede su un binario classico (quello del cambiamento derivante dall’incontro tra questo prof e i sei ragazzi), ma al tempo stesso riesce a smarcarsi dai soliti cliché con cui certo cinema tratta il tema dell’integrazione e del diverso.
“Della scuola sappiamo più o meno tutto, dai giornali, dal web, dalle chat dei genitori, ma non dalla voce dei ragazzi che la frequentano, che la vivono ogni giorno, in tutte le sue
contraddizioni ed i suoi conflitti, anche razziali. Volermi appropriare di questa tematica non è un atto d’accusa nei confronti di una parte politica o di una categoria, o più in generale della società, è solo voler restituire ad un pubblico, più ampio possibile, una testimonianza sullo stato delle cose”, dice ancora il regista.
Che affida al sempre ottimo Fabrizio Ferracane il ruolo del preside, uomo in bilico tra la speranza e la disillusione di un compito ormai esaurito, e all’Helsinki de La casa di carta (Darko Peric) quello di un bidello-consigliere alla lunga un po’ troppo “costruito”.