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Tra le tante paure che si agitano nei cuori di chi vive nel terzo millennio le peggiori sembrano essere quelle scatenate da atti di violenza perpetrati da chi agisce apparentemente senza alcun timore di conseguenze morali o penali: dagli attacchi terroristici ai mass shooting passando per l’ethnic profiling e la brutalità della polizia nei confronti di cittadini afroamericani. Circondati da eventi la cui violenza ha dell’incredibile, il vederli costituzionalizzati sembrerebbe il peggiore degli incubi: se per 12 ore l’anno, in un’unica notte, fosse concesso (e incoraggiato) ogni reato e perfino l’omicidio rientrasse nei confini della legalità? Questa è la premessa ormai nota al pubblico della serie La Notte del Giudizio, di cui questo quarto appuntamento costituisce l’antefatto. Più che nei film precedenti, la sceneggiatura di James DeMonaco esplora le implicazioni socio-politiche dello strumento distopico concepito dal fittizio partito di estrema destra New Founding Fathers of America e calca la mano su riferimenti all’attualità e al clima di odio strisciante negli USA e oltre. Gerard McMurray, cui DeMonaco ha ceduto la regia per la prima volta nella storia del franchise, dirige un cast quasi esclusivamente nero in un film più evidentemente politico dei precedenti; non a caso, dal momento che La Prima Notte del Giudizio è il primo post Trump della serie.
In quanto primo esperimento di “Sfogo” la nottata di impunità si estende alla sola Staten Island. Per favorire la partecipazione e coinvolgere i meno abbienti, il governo decide di fornire degli incentivi a chi rimarrà sull’isola (monitorato da chip sottopelle), alzando il compenso a chi “parteciperà attivamente” ai reati. Orde di residenti, disperati e gonfi d’odio, accettano, mentre gruppi di protesta guidati dall’integerrima Nya (Lex Scott Davis) manifestano il proprio dissenso, suggerendo che lo “Sfogo” – al di là della sua brutalità – sia un espediente per sottomettere e togliere di mezzo i cittadini più svantaggiati.
Nel corso del film scopriremo che i manifestanti avevano più ragione di quanto forse loro stessi non sospettassero: si scopre che il governo – la cui nobiltà d’intenti è stata ingenuamente sopravvalutata dall’ideatrice dell’esperimento, la psicologa Updale (Marisa Tomei) – ha ingaggiato dei mercenari col compito di confondersi tra i cittadini e sterminare sistematicamente quanti più residenti (poveri e di colore) dell’isola. È a quel punto che Dimitri (Y’Lan Noel), capo della gang più potente della zona nonché ex di Nya, seppur inizialmente contrario all’iniziativa, resosi conto dell’inganno decide di scendere in campo con i suoi uomini per cercare di salvare la sua comunità.
Si sente qui la mancanza di una traduzione più puntuale del nome originale dell’evento nonché titolo dei film: l’italiano “Sfogo” non rende così appropriatamente come l’inglese “Purge” la duplice portata di questa notte infernale. Se chi prende parte al teatro di violenze intende “sfogarsi” e “purificarsi”, nella traduzione si perde l’evidente significato di “purga” sociale, razzista e classista, dell’escamotage adottato dai New Founding Fathers of America, i cui espedienti di governo invece che causare assuefazione dopo ben tre film, cominciano a sembrare inquietantemente familiari.
Scorrazzano per le strade di Staten Island, ingaggiati dal partito o indipendentemente, neonazisti con tanto di divisa à la SS (uno di loro, ucciso da Dimitri, indossa una maschera blackface), membri della cosiddetta “Alt-right” razzista e del Ku Klux Klan. Non è una semplice coincidenza che il sottotitolo italiano del film reciti “La rinascita di una nazione”, richiamando quella Nascita di una nazione raccontata da David W. Griffith con le lenti del razzismo. E a proposito di slogan, non c’è bisogno di leggere “Make the Purge Great Again” sui gadget del film per capire che il franchise, dopo aver strizzato l’occhio alle elezioni Trump-Clinton nel precedente The Purge: Election Year, critica aspramente il governo Trump.
Tra combattimenti da videogioco e colpi di scena non proprio imprevedibili, sono vari gli spunti che si offrono allo spettatore: dalle riflessioni sul controllo e la spettacolarizzazione della violenza, alla natura del bisogno di mascherarsi nonostante l’impunità sia garantita. Sembra più che altro però che il violento tour de force de La Prima Notte del Giudizio intenda porsi a sua volta allo spettatore come una catarsi momentanea e voglia inasprire l’indignazione nei confronti delle ingiustizie della società americana.
E a modo suo, con semplicità da B-movie, ci riesce, senza tante sottigliezze. Alla fine di un incubo durato una notte intera e al grido di “now we fight”, il compito di chiudere su una nota positiva è affidato a Kendrick Lamar e alla sua “Alright” (canzone simbolo del movimento Black Lives Matter): se combatteremo “staremo bene”, nonostante tutto.