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Il regista francese Cédric Kahn è un poeta della rabbia di vivere. Uno specialista della messa in scena della lotta per la vita. Il suo film al concorso della 68. Berlinale, La prière, lo ha ambientato in una casa famiglia cattolica per ragazzi ex tossicodipendenti ai piedi dei Pirenei. Per molto di loro la casa è l’ultima chance. Thomas (Anthony Bajon), è l’ultimo ad arrivare. L’eroina ancora nel sangue colpisce a freddo in spaventosi attacchi di astinenza. Dal momento dell’arrivo in poi il ragazzo non sarà più solo neanche un momento. Questo è il regolamento. Orgoglio e resistenza vanno spezzati, per sopravvivere. Dai compagni impara il duro lavoro, l’umiltà e la gratitudine. Giorno dopo giorno. La preghiera del titolo non è una preghiera specifica, ma un grido d’amore per la vita. La vita quotidiana dei ragazzi di questa comunità forte e coesa, è eucarestia quotidiana; trasformazione senza possibilità di ritorno.
Kahn sa molto bene che una tempesta interiore sullo schermo deve essere in primo luogo resa plasticamente. Gli attacchi di Thomas sono la tortura necessaria cui assistere per risvegliarsi solidali con il giovane.
Cédric Kahn ha fatto un film religioso, o meglio di profonda religiosità, da agnostico. Il quotidiano come prova incessante è una parabola. Fa bene il bravo Kahn a rinunciare a qualunque ironia di fronte alla devozione vissuta con passione di giovani e giovanissimi in arrivo dalle periferie di mezza Francia. La casa famiglia, e questo film, sono un laboratorio della speranza. La preghiera è una richiesta di aiuto; al direttore impegnato ogni giorno con tutti e ciascuno di loro, ai compagni, a Dio. Forse una casa dell’Utopia. Ma non c’è bisogno di essere religiosi per credere che la comunità riesca a dare direzione e sostegno. Amicizia e amore. Un film necessario e poetico. Interpretato magnificamente dai protagonisti Anthony Bajon, Damien Chapelle e Alex Brendemühl.