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La polvere del tempo
Un maestro resta tale quand'anche abbia girato il suo film peggiore. E' il caso di Theo Angelopoulos - meraviglioso regista de La recita, Lo sguardo di Ulisse, L'eternità e un giorno - e del suo ultimo lavoro, a dir poco indifendibile. La polvere del tempo, secondo capitolo di una trilogia iniziata con la sorgente del fiume, scritto in collaborazione con il solito Tonino Guerra e interpretato da un cast di tutto rispetto (Bruno Ganz e Michel Piccoli, Iréne Jacob e Willem Dafoe), è un viaggio nella memoria che intreccia privato e storia, amori e regimi, purghe di Stalin e mal di pancia personali. A tenere uniti i fili di una vicenda così arzigogolata è un regista senza nome (ma nel pressbook è identificato dall'iniziale "A", il che toglie ogni dubbio sulla reale identità del personaggio), che vorrebbe realizzare un vecchio progetto sulla figura della madre, una russa accusata di tradimento dai comunisti, confinata in Siberia, poi liberata, amata da due uomini (un connazionale e un ebreo scampato ai campi di sterminio), transfuga in America e di ritorno in Europa giusto in tempo per salvare la nipotina malata di depressione e respirare il nuovo vento che spira dalle crepe del Muro di Berlino.
Insomma di tutto e di più, avanti e indietro nel tempo, dal soggettivo al collettivo, tra finzione e realtà: Angelopoulos aspira a fondere nel nome del cinema che tutto rapprende e ricorda ("Nulla finisce", ripete all'inizio il regista/personaggio) melodramma familiare e tragedia corale, riflessioni sul mezzo e meditazione sul Tempo, adoperando una struttura a fisarmonica, che macina flashback a ripetizione e regala raccordi impossibili (a volte basta una porta, una musica, un'immagine per passare da un'epoca all'altra). Un'operazione schiacciata dal peso delle proprie ambizioni, incapace di dar conto in maniera credibile tanto della piccola storia - esasperata e artificiosa - quanto della grande - cucita come un Bignami.
Soprattutto è un'opera anacronistica in modo commovente. Assurdamente declamatoria ("La mia casa sono le storie che racconto", dirà il meditabondo regista alla ex moglie che se ne va via piangendo), fitta di dialoghi letterari e scene didascaliche (su tutte quella dei televisori distrutti nella hall dell'albergo); banalmente provocatoria (la sequenza degli invasivi controlli aeroportuali, che di fatto mostrano persino i genitali dei passeggeri), pomposa nel gesto e magniloquente nelle sonorità, ancora invaghita di Brecht. L'intento è dichiaratemente artistico, l'effetto ben oltre, pericolosamente prossimo al ridicolo. L'equivoco è aver ridotto il fine al mezzo, il cinema sul passato al cinema del passato. L'archeologo al reperto. Il risultato è un destino sciagurato, condiviso: sotto la polvere del tempo, oltre alla storia, il film.