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passione cristo via crucis
È durissimo. Il film di Mel Gibson è veramente duro e non concede spazio alla fantasia. La passione di Gesù è descritta nei particolari, senza indulgenze estetiche, ma anche senza falsi pudori. Gli uncini dei flagelli strappano la carne viva e lo spettatore soffre e sussulta insieme con il sanguinante protagonista della storia. Per tutto il film. Due ore e dieci minuti di sofferenza vera. Due ore e dieci minuti di autentica commozione. Il film La Passione di Cristo è veramente "tosto". Si esce dalla proiezione scioccati e colpiti nel più profondo e intimo dei sentimenti. Questa scelta di linguaggio, è facile prevederlo, provocherà più di una polemica. Mentre il can can mediatico sul presunto contenuto antisemita del film si scioglierà come neve al sole non appena il pubblico potrà constatarne da solo la assoluta e totale infondatezza, nuovi focolai di polemica si accenderanno invece per il tono esplicito del film e per il suo linguaggio. Il sangue scorre copioso sullo schermo e tante saranno le domande che questo susciterà. La situazione del Medio Oriente è esplosiva e il mondo non sente il bisogno di nuovi integralismi. Il film di Gibson, molto probabilmente, sarà visto da centinaia di milioni di persone in tutto il mondo e a molti sembrerà un inno al fondamentalismo. Ci vorrebbe l'aiuto di una equipe di psicologi per capire quale effetto potranno avere quelle immagini sulle menti e sui cuori dei più deboli. È facile intuire però perché Mel Gibson, nonostante ciò, abbia voluto fare comunque un film così. Un film che inizia con uno schiocco sparato fortissimo negli altoparlanti della sala. È il rumore del sandalo di Gesù che schiaccia, con un "crack", la testa del serpente. È una scelta di campo inusuale e "scandalosa" da parte di Gibson, nei tempi del politicamente corretto ad ogni costo. La società contemporanea, che sarebbe meglio definire "società delle immagini", è fortemente scristianizzata. La durezza dei cuori degli uomini del terzo millennio è paragonabile in qualche modo solo alle risa volgari e sguaiate dei soldati romani che, anche nel film di Gibson, picchiano e poi crocifiggono Gesù. C'è un legame stretto fra l'evento di duemila anni fa e la nostra vita quotidiana. I cuori sono diventati di pietra, gli occhi sono serrati (anche se ottusamente aperti sul caleidoscopio delle immagini della modernità, come ha già detto Stanley Kubrick con il suo film - testamento Eyes Wide Shut) e le orecchie sono sorde ai lamenti della coscienza. Oggi come allora, duemila anni fa. A questo potrebbe avere contribuito un certo annacquamento operato sul messaggio evangelico. Come se arte figurativa prima, e cinema e televisione dopo, avessero trascurato un aspetto importante della vita di Gesù: la sua sofferenza, umana e divina. C'è un solo fotogramma, nel film di Gibson, che da solo varrebbe l?intero prezzo del biglietto. Dopo la morte di Gesù sulla Croce, la macchina da presa, che fino al quel momento ha seguito il dramma senza mai staccarsi da terra, prende il volo e lo spettatore si trova improvvisamente a guardare la scena dall?alto dei cieli. L'immagine è come trasfigurata in uno strano effetto a occhio di pesce. Poi anche quella bizzarra rotondità si muove e comincia a precipitare verso la terra dove si schianterà in pochi secondi. È la prima goccia d?acqua del finimondo che si scatena sul Golgota. Si rimane stupefatti. La sequenza, brevissima, rimane nell'immaginario dello spettatore annichilito. È come se Gibson abbia avuto l'ardire di poter immaginare e poi di voler raffigurare lo sguardo e, soprattutto, il pianto di Dio. Un gesto di arroganza salutare, pazzesco ma baciato dalla grazia. Per troppo tempo abbiamo trascurato la sofferenza di Dio. Una sofferenza che è specchio e immagine della nostra stessa sofferenza nel peccato. Solo così infatti si può capire perché Gibson abbia voluto essere così duro nella rappresentazione della violenza che abbiamo inflitto a Gesù. È, infatti, la stessa violenza che abbiamo inflitto a noi stessi. Quelle carni martoriate sono le nostre. Le lacrime di Maria sono le nostre. Per questo il dolore di Gesù, sullo schermo gigante di Mel Gibson, ci colpirà così tanto. Troveremo un forte motivo di identificazione e non sarà facile liberarsi da uno strano sentimento. E una domanda ci coglierà all'improvviso, alla fine della proiezione, all'uscita della sala cinematografica: dove siamo stati in questi ultimi duemila anni? Come abbiamo fatto a dimenticare?