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Il pensiero di Thoreau è sempre moderno. Tralasciando il libro Disobbedienza civile, la sua opera di maggior successo nell’Ottocento è stata Walden ovvero vita nei boschi. Per due anni l’autore ha vissuto in una capanna, sulle sponde del lago Walden, dimostrando che, nella comunione con la natura, l’uomo ritrova sé stesso. È stato un esperimento sociale, rielaborato successivamente in chiave filosofica da Stanley Cavell nel seminale The Senses of Walden. Il documentario La pantera delle nevi di Marie Amiguet e Vincent Munier segue Thoreau, si interroga sul senso della bellezza e diventa una potente riflessione sulle immagini.
In una sequenza ci viene mostrata una fotografia. In primo piano spicca un falco appollaiato su una roccia. Poco più indietro, sulla sinistra, spuntano gli occhi della pantera. Ricordiamo le parole del libro da cui è tratto il film: “Non avevo visto altro che l’uccello e lui aveva dovuto indicarmi la pantera col dito perché mi accorgessi della sua esistenza. Il mio sguardo non l’avrebbe mai scoperta senza aiuto, perché cercava di vedere solo una presenza immediata”. È proprio qui il significato della storia, nella destrutturazione di quella “presenza immediata”. Il vero protagonista è l’attesa, viene esaltata un’attenzione per i dettagli ormai perduta.
La pantera delle nevi fugge dal flusso adrenalinico della quotidianità, invita alla riflessione sul presente, rifiuta le soluzioni facili per scavare in altre dimensioni. Che cos’è in fondo la pantera? L’impossibile che si fa concretezza, il fascino del mistero che finalmente si svela e si concede ai nostri sensi. È la lezione del cinema di Debra Granik, il ribaltamento di quello che era stato Koyaanisqatsi del 1982 di Godfrey Reggio. Non c’è più spazio per l’ipervelocità dell’industria, per il progresso che vince su ogni forma di intimismo. Qui c’è l’essere umano che osserva l’infinito, come nel quadro Il viandante sul mare di nebbia di Caspar David Friedrich. Quell’infinito è un altopiano tibetano che sembra appartenere a un altro universo. Luogo impervio, quasi inaccessibile, si fa teatro di una ricerca che supera ogni bisogno terreno. L’obiettivo non è solo fissare per un attimo negli occhi il predatore, ma riscoprire un mondo solo all’apparenza perduto.
Nella quiete, sulla neve, i due esploratori sanno di essere solo degli ospiti di passaggio. Si sentono piccoli, bloccati in corpi che li limitano. I cineasti Amiguet e Munier si concentrano su un’esperienza più spirituale che fisica. Vogliono fermare l’orologio, aguzzare l’ingegno nel descrivere lo spazio. La fotografia diventa il mezzo per inseguire la perfezione, per rendere la staticità l’unica via possibile. “Perché fotografi solo il bello?”, domanda qualcuno al protagonista.
Perché “il cinema è la vita senza le parti noiose”, diceva Hitchcock. La pantera delle nevi vuole essere una favola, una nuova appropriazione del tempo perduto, un qui ed ora lontano dalla follia, dall’errore. Per un attimo ogni cosa è illuminata, tutto è meraviglia. Per un’ora e mezza l’obiettivo è contemplare, astrarsi, in un cammino personale che riguarda tutti. Di grande forza è anche la colonna sonora di Warren Ellis e Nick Cave, che già da sola varrebbe il prezzo del biglietto. Notevole la canzone We Are Not Alone sui titoli di coda.