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Lo Sfogo è in pericolo. Una senatrice (Elizabeth Mitchell) cocciuta come Hillary Clinton e procace come la versione hardcore di Sarah Palin, ha promesso che nel caso venisse eletta lo abolirà. Quei sepolcri imbiancati dei Padri Fondatori, che sullo Sfogo si sono giocati onore e carriera politica oltre che lucrose commesse con le assicurazioni sulla vita e con l'industria delle armi, non sono ovviamente d'accordo. Il loro candidato, un pastore protestante che farnetica di purificazione e sacrifici umani neanche fosse uscito da un libro di René Girard, è ancora avanti nei sondaggi ma di poco, troppo poco.
Per essere sicuri che la democrazia non tiri un colpo gobbo, stabiliscono la liquidazione prematura della senatrice. Lo Sfogo di marzo è l'occasione propizia per mettere in pratica il nefando proposito. Che rischia però di rimanere tale mettendosi di traverso l'indomito bodyguard della senatrice (Frank Grillo) e un manipolo di pacifici cittadini dalla carnagione scura.
Ecco Election Year, terzo capitolo delle saga The Purge (malamente tradotto in italiano con La notte del giudizio), il western metropolitano e distopico ideato da James DeMonaco (che ha scritto e diretto tutti e tre gli episodi) e prodotto da Jason Blum della Blumhouse, la stessa di Paranormal Activity e dei più originali e remunerativi prodotti americani di genere degli ultimi anni. Motto della casa? Massima resa con la minima spesa, filosofia che nel caso di The Purge ha sempre pagato: di media ogni film è costato 10 milioni di dollari e ne ha incassati 60.
Se pure con meno mordente dei precedenti, ancora una volta è sconcertante la capacità di reazione di questa saga nei confronti dell'attualità, non tanto per il testa a testa alle elezioni presidenziali tra una senatrice idealista e un uomo dalla capigliatura improbabile e la retorica persino meno seria, ma per come riesce a mettere in scena le vecchie nuove tensioni razziali in maniera schietta e fuor di metafora: i bianchi fanno fuori i neri, i neri fanno fuori i bianchi. Tra i bianchi ci sono gruppi di estremisti che si fanno chiamare suprematisti bianchi e tra i neri ci sono leader tipo Malcolm X che credono di poter combattere la violenza solo con la violenza. Poi certo ci sono gli eroi per caso che si sacrificano, i malviventi convertiti, i John Wayne dalla pistola facile e il cuore d'oro e gli idealisti alla James Stewart. Ci sono gli indiani assiepati sopra la collina mentre passa la diligenza. E oggi gli indiani sono i figli dei pionieri, i padri fondatori, i colonizzatori di un immaginario Ovest sempre selvaggio, sempre bastardo.
L'azione si ripete. All'interno del film, la scena. Ai bordi, la Storia e il suo immaginario. Così aspettiamoci sempre un saloon (l'odierno market), una carovana, un pistolero, un fuorilegge e un Presidente ammazzato. Al di là delle facili letture, delle ovvie metafore, oltre l'iconicità esasperata dei suoi personaggi - o per mezzo di tutte queste cose - The Purge racconta meglio di ogni altro prodotto mainstream e in modo meno fumoso di tanti testi accademici il mito della nazione americana, la nascita e la rinascita, con la sua retorica e le sue figure, orbitando attorno allo spazio mitico del Far West per colpirne il nocciolo: la possibilità di una riconciliazione tra Natura e Cultura, tra l'Istinto e l'Idea. La questione è tra una mediazione imperfetta, che nega la prima nel sogno totalizzante della seconda, e una mediazione mostruosamente riuscita, che riconosce la prima subordinandola ai calcoli della seconda. Tra il formalismo esasperato della senatrice e il cinismo tremendamente realistico del pastore. Il fascino perverso di The Purge è nel rimettere in questione due opzioni, due visioni dell'uomo sganciandosi dalla logica consolatoria dell'happy end per trascinarci, con scaltrezza e divertimento, nel rischio del finale aperto. Più che la notte, l'eclissi del giudizio.