“La morte è un problema dei vivi” sibila il vitreo Risto (Pekka Strang) alla figlia di una defunta mentre viaggiano, su una “solida, vecchia” Volvo arrabbattata. La donna preferiva la Mercedes per salutare la madre defunta, ma il becchino ludopatico, subissato dai debiti, ha dovuto venderla da tempo.

Per lo stesso disturbo psichico, saluterà anche la moglie infedele, la casetta famigliare a due piani, l’indifferente figliolo di otto anni. Si ridurrà a dormire in macchina, dove prima stendeva le bare: al suo fianco arriverà pure lo stralunato Arto (Jari Virman) che, scoprendo per caso di essere “quasi senza cervello”, perde il lavoro da maestro d’asilo, abbandona la moglie e i propositi di paternità. Si reiventa, così, becchino al fianco di Risto, l’unico che pare non giudicarlo mentre tutta la società lo fa. Necroforo per vocazione e necroforo per necessità, compongono una scombiccherata, rabbiosa coppia di scartati (dalla moglie, dagli amici, dal datore di lavoro). Rosi dai debiti, plagiati dal brivido del gioco d’azzardo diventano scommettitori di morti da roulette russa.

Trasportando in Europa e personalizzando Il cacciatore, con una regia spietata ed essenziale che sin dalle prime inquadrature sembra non concedere né scampo né redenzione alle sue creature, Nikki compone, in progressione d’assurdo, il suo Breaking Bad finlandese. Ritratto amaro e sconsolato che, tra patologie, manie ed egolatrie, fa scorrere in filigrana, alle spalle dei due disgraziati fossori, la denuncia ad una Nazione quantomai cinica, disagiata, incrudelita, amorale, incapace di slanci altruistici se non per tornaconto economico.

Tra avidità e apatia, padri e madri, mogli e amici diventano manifesto, a loro insaputa, di una classe media prigioniera di pregiudizi, costretta a ballare sul lastrico, tarlata da disagi psichici e preoccupata solo di raggranellare soldi, l’unico problema dei vivi.

Le disgrazie che piovono addosso e che si procurano Risto e Arto, allora, prendono vigore non tanto per l’andamento picaresco della storia (Nikki è anche sceneggiatore e montatore del film), ma per l’universalità, la ricorsività, la riconoscibilità di ambienti, situazioni, personaggi, vizi (la ludopatia distruttiva, l’avidità rovinosa, il pregiudizio discriminatorio, l’indifferenza alla morte, il complesso d’Edipo, l’inadeguatezza e il rifiuto della paternità).

Nikki necrofilo e apatico, scruta a distanza di sicurezza i suoi personaggi, eppure tirando la leva del paradosso, fa lievitare prima e precipitare tutto il cuore tematico, anche morale della storia, senza risparmiare crudezza e tetraggine. Tutto per strillarci a chiare lettere che non crede più nella famiglia, nel lavoro, nei giovani, nella solidal catena umana.

Inesorabilmente, la rassicurante patina umoristica che ricopre la storia salta in aria. La commedia nera, unificando i destini e i terremoti emotivi di due isolati, lascia il passo presto al dramma grottesco, al cinismo incontrollato, all’assurdo accettato e perpetrato, alla radiografia di una società caina, senza speranza. E (forse) senza liberazione.