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La morte è un problema dei vivi
In un ammaccato carro funebre dove la placca argentea "Volvo" a malapena si legge, Risto svolge approssimativamente il mestiere di impresario e quei pochi soldi che gli vengono accreditati sul conto li gioca d'azzardo. Sposato ad una donna che non lo vuole e padre assente, vive le giornate occultando le conseguenze della sua malattia non riuscendo e non volendo a fermarsi. Il vicino di casa, Arto, è un affabile educatore, convivente e alla ricerca di una gravidanza. Tutto apparentemente nella norma, se non che, gli ingenti debiti del primo e la scoperta di Arto, dopo una caduta, di non avere il cervello (o meglio, di averne una piccolissima parte) cambieranno le loro vite trasformandoli da dirimpettai a soci in affari. Spinti dalla situazione critica delle loro condizioni, quando accetteranno una particolare offerta di lavoro, verranno posti di fronte alla spietatezza della casualità.
Strutturato come un buddy movie, ereditandone il classico canovaccio dell'amicizia portatrice di salvifiche (o quasi) riconsiderazioni, i protagonisti interpretano due diverse solitudini, ma entrambe affette dall'incomprensione e indifferenza. A Risto, ludopatico, bugiardo e avido, manca l'umanità, il cuore, ha scommesso ogni cosa bella della propria vita e niente e nessuno scalfisce la corazza fatta di problematica noncuranza; ad Arto, invece, a mancare è inconsapevolmente l'intelletto, la cosiddetta materia grigia, deficit che lo ha reso agli occhi degli altri un ingenuo da poter prevaricare. Solo combinando queste imperfezioni i due "senza", pur arrivando ad un punto da cui sarà difficile tornare, troveranno conforto nel loro rapporto, affrontando a viso aperto sé stessi e chi li circonda, con la consapevolezza di aver trovato qualcuno con cui condividere i difetti.
Il regista Nikki, partendo da suggestioni che di concatenato non hanno nulla, ovvero tre circostanze realmente accadute, sprigiona il consolidato umorismo pacatamente pulp frenando quello hardcore esibito nel precedente The Marcy Killer, rendendolo più lugubremente vivace rispetto all'unanime gioiellino Il cieco che non voleva vedere il Titanic. A rimanere costante la mescolanza iperattiva dei generi, controparti gli uni degli altri, e condizionamenti realistici, trattati dialetticamente con minimalismo e sensibilità, in cui il black humour diviene il collante per affrontare tematiche significative.
Come il connazionale Kaurismaki, il quale tramite la sottrazione affronta problemi sociali, anch'esso problematizza il deterioramento di una società adiafora che non ammette nessuno scampolo di magnanimità. È proprio da questo presupposto che il titolo, una frase echeggiata più volte come motto filosofico, è quanto mai sentenza: "la morte è un problema dei vivi", sì, perché tutte le macerie di un modo di vivere dove l'istinto di morte e il desiderio autodistruttivo, consapevole o meno, rimangono intatte testimonianze della naturale propensione alla sopravvivenza resta agguerrito gioco regolato dalla fatalità.
Probabilmente è dovuta a questo l'intensa focalizzazione su Risto, in quanto è in lui che la freudiana pulsione mortifera, acuita da una dipendenza che dell'autosabotaggio è la massima espressione, si manifesta simbolicamente figurando come siamo, come potremmo essere e come i meccanismi spettrali della realtà perdurino. Ottima e attuale personalizzazione, eppure, il non aver approfondito meglio Arto è una pecca. D'altronde, nessuno più di Arto può rappresentare il portavoce di un messaggio velatamente positivo: l'esistenza è una partita e delle volte non abbiamo nulla da perdere.