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La moglie del poliziotto
175 minuti, quasi tre ore di racconto. E dopo i primi di quelli che saranno 59 capitoli della storia, ci si chiede perchè ci voglia tanto a raccontare la storia de La moglie del poliziotto, l'ultimo film di Philip Groening, in concorso a Venezia 70. Il regista tedesco - autore del bellissimo Il Grande silenzio - stavolta sembra andare in altra direzione, raccontandoci un quotidiano di provincia. La storia banale di una famiglia qualunque, che spiamo come dal vetro di una finestra. Ma basta poco per restare invischiati in quella casa, le gite nel bosco, i giochi di madre e figlia, le filastrocche. Un racconto continuamente spezzato in piccole scene, talvolta di pochi secondi, frammenti di quel vetro che Groening manda subito in mille pezzi, per restituirci solo alla fine il tutto, per spiegarci la scelta estrema di una donna sopraffatta dall'amore, quella per la figlia bambina e quello per il marito, in nome del quale accetta vessazioni, pugni, insulti. Groening, insomma, fa in pezzi letteralmente la vita familiare, per raccontare non un mostro, ma come il male si nasconda nella banalità della vita quotidiana.
La moglie del poliziotto deve moltissimo al montaggio, che solo in apparenza sembra comporre il puzzle di quei 59 frammenti in modo disordinato, frammenti introdotti e seguiti dal buio dello schermo, ma che per lo spettatore ha l'effetto di un evidenziatore di quel che abbiamo appena visto.
Un film irritante? Disturbante? Forse, ma che ci chiede di essere attori di quella ricomposizione del puzzle. E che senza altra musica o luce se non quella naturale, ci porta con dolcezza tra le pieghe di un dolore intimo e della violenza. Quella di chi picchia la moglie, quella di chi preferisce morire.