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La protagonista del taiwanese
La massima distanza possibile
Senza scomodare esempi nobili di lavori cinematografici sul suono come La conversazione di Coppola, va detto che l'esordio dietro la macchina da presa del taiwanese Lin Jing-jie (con La maggiore distanza possibile) propone un interessante connubio tra suono e immagine fino a renderlo elemento precipuo della messa in scena. Non si può non rimanere affascinati dall'idea narrativa che richiama alla mente esempi come Lisbon Story di Wenders dove il protagonista di professione fa il tecnico del suono sui set di cinema. In questo caso il giovane Xiaotang con tanto di enorme registratore e pelosa giraffa al seguito, ha una caratteristica peculiare: arriva sempre in ritardo al lavoro. Ciò gli costa il posto e lo costringe ancor di più, tra una lacrima e l'altra, a concentrarsi nella spedizione di audiocassette zeppe di rumori d'ambiente, suoni e musiche catturate senza un motivo preciso, nei più disparati angoli del paese. La destinataria è la sua ragazza, che a sua volta è sparita senza dargli spiegazione. Nell'appartamento di quest'ultima subentra la bella Xiaoyun, anch'essa in rotta col fidanzato e alienata da un monotono lavoro d'ufficio. Le cassette registrate che rigonfiano buste arrivate per posta, incuriosiscono Xiaoyun: le apre, le ascolta e ne diventa come ipnotizzata. Sarà automatico andare alla ricerca del misterioso mittente. Lin Jingjie costruisce un delicato apologo sull'impossibilità dell'incontro e dell'amore tra anime perdute (nel plot si introduce anche la figura di uno psicologo dalle relazioni amorose andate in fumo e pronto all'on the road assieme a Xiaotang), usufruendo del vettore suono che si fa diegetico ed extradiegetico con estrema accortezza, ma anche polisemico fraseggio, congiunzione, commento sottotraccia. Fino a leggere il senso di molte sequenze dipendendo completamente da esso. C'è molta attenzione all'aspetto tecnico e mano sicura nel tratteggio di una poetica che esige un drastico finale di incomprensione antonioniana.