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La mafia uccide solo d'estate
Forse non si può ridere della mafia, ma contro sì. Lezione contenuta nel bell'esordio alla regia di Pif, La mafia uccide solo d'estate, che squaderna il romanzo criminale per rievocare con i toni della commedia vent'anni di sangue nella Sicilia presa d'assalto dai corleonesi. Scanzonato, malinconico e mai disperato, questo carillon della memoria mette insieme stragi, eroi dell'antimafia, capi, capi dei capi e personaggi di fantasia, per lasciarci, a giro finito, sinceramente commossi e trasognati.
Siamo a Palermo, negli anni '70, e questa è la storia di Arturo narrata dalla voce di Arturo (Pif). Ma questa è anche la storia di Boris Giuliano e di Rocco Chinnici, di Falcone e Borsellino, dei Lima e degli Andreotti, dei Provenzano e dei Riina, protagonisti in positivo e in negativo di una lunga stagione di veleni, di faide, di lotte di potere e di complici silenzi, di proiettili e tritolo, di tenacia e di coraggio, di abnegazione e di martiri, di altari e povere patrie, figli e figliastri, innocenti e malfattori.
Si sfiorano, si toccano, s'intrecciano, le due storie, la piccola e la grande, spesso si confondono e ogni volta si richiamano, Arturo e Palermo, la parte e il tutto. Fin dall'origine l'esistenza del protagonista è stata segnata dalla vita criminale della città/Stato, rette tangenti in montaggio parallelo. Stesso palazzo: di sopra l'avvinghiarsi dei corpi di mamma e papà alla loro prima sul talamo nuziale; di sotto la carneficina di boss e sicari, ordinata da Riina ed eseguita da Provenzano, l'entrata in scena dei corleonesi. Fuochi d'artificio di coppia e pirotecniche fiammate di proiettili, in mezzo l'inserto animato: la folle corsa degli spermatozoi paterni versi l'ovulo materno, il ritrarsi e il disperdersi al primo colpo di pistola, il colpo di scena, l'ultimo spermatozoo, in ritardo, che lento va in meta quando ormai tace il trambusto: è Arturo.
Siamo alla prima sequenza, ma quanto a sfrontatezza ne sappiamo già abbastanza. Colpisce in Pif la disinvoltura nel combinare materiali visivi e registri diversi. Prevale la delicatezza, l'accordo in bemolle tra un ironico racconto di maturazione, il peregrino apprendistato amoroso e il deja-vù dei nostri anni più bui, illuminati dalla consapevolezza del presente. Banalmente verità e finzione, ma quanta maestria nel tenerle insieme, quanta leggerezza nella gravità, quanta passione tra il set e la vita.
Da Pif (anche autore della sceneggiatura con Michele Astori e Marco Martani) il miglior esordio possibile, bravo nel rimescolare le carte, nel reinventare - al pari, sia pure al di sotto, del Benigni de La vita è bella - un cinema d'impegno da mettere sotto l'albero, il film di Natale che non sai se ridere o se piangere, il divertissement con il groppone in gola.
Alleluja? Non proprio. La favola si frange di continuo nella cronaca, l'infanzia è una categoria antropologia, l'ingenuità di tutti, per troppo tempo complice. Tra un valzer e una lullaby, le musiche di Santi Pulvirenti (da applausi) regalano al film un cuore allucinato e un profilo sinistro. E se l'empatia è solo un'ipotesi (specie tra i due interpreti adulti: Pif e Cristiana Capotondi, rivedibili), la rievocazione appare credibile (non solo d'archivio: preziosi i costumi di Cristiana Ricceri e il Beta d'antan di Roberto Forza), l'umanità sincera, mentre stacca mostri e santini dal muro.
Arturo è tra noi, ha capito, passato da ignorante a innocente. Ma l'Isola, l'isola di Arturo, è sempre lì. E ci vuole coraggio a chiamarla ancora Sicilia.