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La lunga corsa
È un cinema di frontiera, quello di Andrea Magnani, che al secondo film da regista conferma che – per citare l’esordio Easy – non c’è niente di facile facile nel suo sguardo. Per una cura dell’immagine che è sintomo di un pensiero nonché emanazione di un immaginario, perché c’è adesione a un territorio che, di riflesso, è aderenza a un sentimento. È curioso come un film così “chiuso” in uno spazio preciso riesca ad assorbire e trasmettere tutto ciò che c’è fuori dal suo ambiente principale, che in questo caso è per di più simbolo della chiusura, anzi della reclusione: un carcere.
A costo di farsi allegorico in maniera perfino didascalica, Magnani enuclea la sua idea di cinema sul concetto di frontiera, confine, limite. Con un titolo, La lunga corsa, che convoca generi distanti da quelli del suo film ed evoca ritmi lontani dal suo passo. Che si prende i suoi tempi, gioca di sponda, osserva il mondo, aspetta epifanie. Un film che è il suo protagonista: Giacinto (Adriano Tardiolo), come quel fiore arrotondato e tunicato che produce pochi bulbetti, maschio imprevisto (non desiderato?) poiché la mamma avrebbe voluto una femmina per chiamarla Rosa.
Un fiore nel cemento, dove cemento è sineddoche del carcere, il luogo in cui Giacinto è nato essendo la madre detenuta. Qualcuno diceva che nessun posto è bello come casa, ma che fare quando quel posto, un penitenziario femminile, è letteralmente l’unico conosciuto, abitato, vissuto? L’orizzonte ha un perimetro definito, il futuro si immagina all’altezza del passato, la vita non sa volare fuori dalle finestre sbarrate prospettandosi come un gabbiano ipotetico. La sua guida, il padre putativo, è Jack, il capo delle guardie (Giovanni Calcagno). E in carcere, Giacinto ha imparato tutto. Tranne una cosa: fare a meno del carcere. Quando, al raggiungimento della maggiore età, deve uscire da quelle quattro mura, il mondo che conosce non gli piace. Viene accolto in una casa famiglia per orfani, subisce il bullismo dei nuovi compagni, non sa relazionarsi con gli altri. E allora scappa. Nessun posto è come casa. Quella vera. Come si torna in carcere?
È possibile una nuova vita (citiamo un altro film scritto da Magnani, quel lunare Paradise con cui esordì Davide Del Degan)? Magari sì: un lavoro “ineluttabile”, un rapporto inatteso (con una detenuta, interpretata da Nina Naboka), una corsa podistica. Prodotto da Pilgrim Film, Bartlebyfilm, Fresh Production Group con Rai Cinema, presentato in Concorso sia al 40° Torino Film Festival sia al Tallinn Black Nights Film Festival e in anteprima per il pubblico del Lecco Film Fest, La lunga corsa rivendica un approccio umanista che parte da uno sguardo sul protagonista in cui l’empatia è temperata dallo straniamento.
La scelta di Adriano Tardiolo non è casuale: rivelato da Lazzaro felice di Alice Rohrwacher, è un attore che sa ospitare lo scandalo dell’innocenza e una purezza disarmante, con una capacità naturale di catalizzare il centro della scena senza ricorrere alla retorica e all’eccesso. Il suo Giacinto è selvatico e stralunato, difettoso e ingenuo, incompleto perché immaturo, un Candido e uno spatriato. Sa di essere stato un inciampo (per la madre che voleva una femmina), un espediente (per il padre che lo usa per uscire di scena senza onore), un ingombro (per la madre che, appena può, si svincola dall’obbligo dell’accudimento), ma anche di potere essere un dono (per la guardia, figura paterna e salvifica perché non canonica, quasi specchio ribaltato di Giacinto, nome del quale Jack è versione esotica).
L’essere divergente rispetto alla norma rende inedita anche la sua visione della libertà: uscire dallo spazio che per definizione indica la reclusione offre ineluttabilmente l’occasione di essere liberi, anzi liberati? Nel momento in cui ragiona sull’identificazione tra casa e libertà, La lunga corsa si pone anche come l’avventura di una riconfigurazione identitaria e un percorso di un posizionamento tanto necessario quanto non calcolato, un film accorto e gentile che cerca continuamente di seguire il protagonista senza fargli sentire il fiato sul collo, dove il titolo è sinonimo di un avviamento esistenziale oltre che un chiaro riferimento sportivo.
È qualcosa che ha a che fare con la visione decentrata di Magnani, che si riflette non solo nel suo stare dentro un paesaggio che riflette la coproduzione italo-ucraina, con un Nord-est italiano contaminato dall’est europeo, ma anche nel suo continuo scavallare i generi, con la vocazione a un umorismo lunare che scavalla in quel dramma che tutto sottende.
Lo dimostrano anche alcune scelte di casting, con presenze di matrice antinaturalista, da Barbora Bobulova (attrice che di per sé rappresenta l’idea dello sconfinamento, con i suoi natali slovacchi che portano in dote al cinema italiano suggestioni e tonalità mitteleuropee) in completo fucsia e benda all’occhio alla Bette Davis in L’anniversario (ma la sua direttrice è solo una potenziale dark lady) a Gianluca Gobbi come prete da cartoon fino ai genitori Aylin Prandi e Stefano Cassetti e allo stesso Calcagno che si palesa con baffoni da fumetto e via via assume connotati sempre più realisti se non proprio malinconici.
Il tono generale è anche merito dei costumi caratterizzanti e caratterizzati di Nadiya Kudryavtseva, delle scenografie di Aleksandr Batenev e Marina Williams che evocano non-luoghi, della fotografia nitida di Yaroslav Pilunskiy, della colonna sonora di Fabrizio Mancinelli che sa entrare dentro l’atmosfera rarefatta e quieta. Il titolo con cui il film viaggia all’estero è Jailbird, che sta per galeotto, ma anche avanzo di galera: un’espressione a cui Tardiolo sa dare un nuovo significato.