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La loi de la jungle
C’è una quantità di gag in La loi de la jungle che basterebbe per almeno un paio di film. Ma nell'opera seconda di Antonin Peretjatko c’è anche qualcosa che va oltre il gusto giocoso della creazione comica: c’è la voglia di rompere ogni schema, regola e codice. Di distruggere le norme facendo partire il film - presentato al Torino Film Festival sull’eco del successo in patria - nell’ipotetico Ministero della Normativa. Qui lo stagista Marc arriva tardi e si becca l’ultimo incarico disponibile: andare in Guyana francese e convalidare secondo i parametri europei una stazione sciistica artificiale. Ma la situazione in Guyana è di devastante incompetenza e il viaggio si trasformerà in un’avventura nella giungla assieme alla seducente Tarzan.
Scritto da Peretjatko con Frédéric Ciriez e Maud Ameline, La loi de la jungle è un’avventura satirica scatenata sul filo del demenziale, un Fitzcarraldo scritto dal trio Zucker-Abrahams-Zucker. Il bersaglio del film è evidente fin dalle prime esilaranti sequenze: mettere alla berlina il sistema francese, la sua politica interna - non così diversa dall’apatia nostrana, d’altronde ci divide solo una montagna - fino alle sue conseguenze tardo-coloniali in cui l’incompetenza statale si amplifica, prendendosi gioco del terzomondismo d’accatto. Ma al di là della visione politica affilata (in un sogno, Marc finisce ammazzato nell’ufficio del ministro dai nuovi parlamentari del Front National), quello che rende trascinante La loi de la jungle è la sua anarchia cinematografica, la sua follia inarrestabile che lo porta a dimenticare ogni regola filmica per fare ciò di cui il regista ha voglia, accelerando il découpage oltre l’ellissi o allungando la sequenza al di là del buon senso.
Peretjatko crea un’ipertrofia comica che può generare di sicuro sazietà o rifiuto dopo poco, ma se si riesce ad accettare il gioco La loi de la jungle si rivela un film spesso esilarante, a tratti sul filo del genio, in grado di sposare svariati influssi comici (Monty Python, lo slapstick, Quentin Dupieux, Hellzapoppin’ e persino Tati nell’uso del sonoro, come la sequenza del lombrico fisarmonica) e di far sgorgare da un film in cui ogni scena regala almeno 2/3 gag diverse vene impreviste come l’estasi naturalistica, la pulsione sensuale e il romanticismo liberatorio. Merito anche dei corpi sublimi di Vincent Macaigne, scomposto, sgraziato e sgradevole ma irresistibile, e Vimala Pons, seducente buffoneria ad alto tasso erotico.