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La ligne - La linea invisibile
Sedie lanciate in aria, movimenti concitati, colleriche espressioni facciali ripresi in slow motion e musica classica ad alto volume fanno da cornice a una violenta colluttazione.
Questo è l’incipit de La ligne - La linea invisibile di Ursula Meier, presentato in concorso alla 72mo Festival di Berlino (2022). Due donne, una madre e la figlia: la prima, Christina (Valeria Bruni Tedeschi) , circondata per essere difesa e l’altra, Margaret (Stéphanie Blanchoud), trattenuta nelle sua aggressività, con il viso malconcio e adirato, intenta nell’acme della prevaricazione.
Fisicamente espulsa in mezzo alla neve e fuori dalla casa, eletta palcoscenico della femminea aggressione, alla trentacinquenne Margaret viene imposto l’ordine restrittivo di rimanere a più di cento metri da Christina, la sua abitazione e le restanti due sorelle minori, Marion e Louise. Impossibilitata a travalicare le linea letteralmente tracciata dalla piccola Marion, per delimitare la zona dove non farla accedere, Margaret con il tempo necessario maturerà la consapevolezza di voler riprendere in mano la propria vita e tornare al fianco delle sorelle bisognose l’una dell’altra.
Nuovamente alle prese con la già avviata indagine sulle dinamiche disfunzionali di famiglie in cui i ruoli tradizionali sono del tutto riflettuti e riscritti, Ursula Meier torna ad affrontare, tramite consolidato realismo e come nel precedente Sister (2012), il tema della sorellanza e l’estrema equivocità dei legami emotivi, sebbene incastonati nel reticolo delle relazioni domestiche.
L’opinabile nucleo familiare protagonista è infatti composto da tre sorelle su cui grava il peso di una madre narcisista che esercita una sempre più acuta e pericolosa violenza psicologica alla quale ognuna si ribella come può e come pensa sia giusto. Ma è soprattutto su Margaret che pesano le conseguenze del passato, l’ombra ingombrante di un genitore inadatto, il rancore e la rabbia scaturiti dalle aspettative deluse, dal non detto e da cicatrici mai rimarginate.
Mossa dall’animalità istintuale, la giovane donna non riesce ad evitare il conflitto fisico, dimostrando costantemente come ne abbia bisogno per esprimere sé stessa e per controbattere ad armi pari l’indolenza materna. E se Margaret lo fa appellandosi all’istintività, manesca e cieca, e Louise ricercando un’apparente normalità, la più piccola Marion, ancora molto protettiva nei confronti della mamma nonostante fugaci momenti di biasimo, rifugge nella religione, concependola come unico strumento di purificazione e pentimento per sé e per le altre.
Tutte e tre, ognuna a suo modo, subiscono l’abuso psicologico perpetrato da Christina che assume, nel tempo, la conformazione di negligenza emotiva, bisogno di ammirazione, apprezzamento e il conseguente porsi sulla stesso piano comportamentale delle figlie in un gioco in cui vige il continuo scambio delle parti e in cui nessuno occupa il proprio posto.
Tramite ritratti di donne fragilmente decise, Meier realizza un film al femminile e sulla violenza femminile: quella fisica, come non spesso accade di vedere e, soprattutto, quella rappresentata dalla sopraffazione mentale, assai subdola e pericolosa.
Il clima nervoso e lo spoglio paesaggio periferico, inoltre, circoscrivono la drammaticità e l’imprevedibilità degli eventi e la linea visibile demarca, forse in maniera un pò troppo tragicomica, la disconnessione, l’allontanamento e il restare bloccati nelle caratteristiche individuali d’origine. In fondo, basterà metabolizzare la distanza e valicare la “sottile linea blu” per riscoprire la prossimità, accantonare l’orgoglio e praticare il perdono.