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Sveva Mariani, Antonio Bannò, Federico Majorana in La guerra del Tiburtino III
C’è differenza tra il prendersi sul serio e fare le cose sul serio. La guerra del Tiburtino III, grazie al cielo, non si prende sul serio perché fa dell’ironia professione di fede. Allo stesso tempo, tutto ciò che fa lo fa seriamente, senza cedere alla cialtronaggine e al pressapochismo. Consapevolmente orientato sul bizzarro (anzi, il weird), entra nel quartiere del titolo per scassinare le convenzioni del racconto periferico, svelando contraddizioni e paventando rivoluzioni attraverso l’escamotage del genere. Cioè la fantascienza, con la forma di un piccolo meteorite caduto dal cielo e raccolto da Leonardo De Sanctis, il padre di Pinna, piccolo spacciatore locale, e marito dell’estetista più quotata della zona (“Per le unghie quest’anno va il tigrato”).
Dopo il primo approccio con il frustrato De Sanctis, trasformatosi nella Regina Madre, gli alieni prendono possesso di quasi tutti gli abitanti del quartiere: tono automatizzato, gesti violenti, brama di potere. Riusciranno Pinna e i suoi amici, più Lavinia, la più famosa fashion blogger d’Italia residente al Tiburtino suo malgrado, a salvare il quartiere quindi il mondo? Luna Gualano crede nella commedia, evita la severità distopica e abbraccia invece un gusto dell’assurdo che ha che fare con la tradizione artigianale, la creatività avventurosa, lo spirito dissacrante del nostro cinema “b” e non solo.
È chiaro che c’è un omaggio a quel filone che va da L’invasione degli ultracorpi in giù, ma Gualano sa usare il genere come dispositivo per interpretare e leggere la realtà: la rabbia di chi si sente dimenticato dal centro (Leonardo che si lamenta della spazzatura e degli immigrati) e la “semplicità” di chi crede più al soprannaturale che all’evidenza (lo stratagemma di Padre Pio per convincere le donne), lo spaesamento di una generazione bloccata in cameretta (Pinna tra bilancini di precisione e musica a tutto volume, ma anche Lavinia ossessionata dalla manutenzione della popolarità) e la sua occasione di riscatto, la stupidità di certi uomini (è abbastanza simbolico che siano soprattutto loro a essere annichiliti e usati) e lo scollamento con la politica (è anche un’allegoria della sostituzione, pur senza troppe risonanze politiche).
Si sente l’impronta dei Manetti Bros. (che producono tramite la Mompracem con il compianto Carlo Macchitella e Pier Giorgio Bellocchio, anche nel cameo del ministro) ma Gualano procede con consapevolezza e autonomia: nella gestione di un film corsaro più per lo spirito che per i mezzi, mantiene misura e controllo, accoglie il piacere del racconto e guida bene un cast di commedianti divertiti (Antonio Bannò è una gran faccia, l’uso di alcuni interpreti di Boris una garanzia, con la gustosissima apparizione di Carolina Crescentini).