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Tratto dall’omonimo romanzo di Carlo D’Amicis, La guerra dei cafoni di Davide Barletti e Lorenzo Conte rimane fedele al soggetto di base.
Metà anni Settanta. A Torrematta, un’immaginaria località del Sud Italia, si combatte un’atavica guerra che vede schierati da una parte i figli dei ricchi, ‘i signori’, e dall’altra i figli dei contadini, ‘i cafoni’. A capo dei rispettivi schieramenti il fascinoso Francisco Marinho, ribattezzato Maligno, e Scaleno.
Metafora filmica tesa a rappresentare la disparità sociale e il conflitto di classe che da sempre caratterizza il Meridione (significativo il prologo che vede Claudio Santamaria nelle vesti di signore gríco-romano), la trasposizione cinematografica del romanzo di D’Amicis presenta uno spaccato di realtà, seppur cronologicamente contestualizzato, mai tramontato e assolutamente attuale.
In un territorio abbandonato dalle istituzioni, a imporre le leggi, rivendicare la propria supremazia e prendersi ciò che di diritto loro spetta sono gli stessi abitanti del luogo, con differenti inclinazioni che hanno comportato, nel corso del tempo, l’escalation di una criminalità efferata e di un divario sociale che tuttora risente di quanto, in maniera romanzata, D’Amicis affronta nel suo libro.
La scelta del non luogo ha consentito ai registi di fare della Puglia un unico ambiente, mescolando ragazzi di diversa provenienza (dal foggiano al Capo di Leuca) in un unico gruppo. Perché in crisi non esistono bandiere (come dimostrano anche i piccoli protagonisti del film) e la guerra la si vince soltanto stando assieme.
Guardare il film La guerra dei cafoni attraverso gli occhi dei giovanissimi suscita, oltre che maggiore curiosità, diversi spunti riflessivi ponendosi come lezione per quelle generazioni precedenti e future. Punto d’incontro per quelli prima e quelli dopo, il gruppo di Torrematta non elude un solo grande comandamento (e non dettato da Papaquaremma): l’amore non conosce rivali.