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The Sea of Trees
Non è la prima volta che Gus Van Sant guarda da vicino al lutto e alla morte, temi già adombrati nel romanzo d’esordio, Pink, e in uno dei suoi ultimi film davvero convincenti, Restless. Mai però in chiave apertamente escatologica, quasi malickiana, come in The Sea of Trees, opera con cui si è ripresentato in gara allo scorso Festival di Cannes otto anni dopo Paranoid Park. Va detto, con più ombre che luci.
Le stesse che attanagliano l’animo di Arthur Brennan (Matthew McConaughey), uno scienziato americano che ha appena acquistato un biglietto di sola andata per il Giappone dove, ha deciso, porrà fine alla sua vita. Sceglie almeno di morire in un posto congruo, nella famigerata Aokigahara, la Foresta dei Suicidi ai piedi del Monte Fuji. I suoi “buoni” propositi verranno però congelati dall’incontro con un altro aspirante – e imbranato – passeggero per l’aldilà, Takumi Nakamura (Ken Watanabe).
Scenario decisamente inedito per un Van Sant meno ispirato e coraggioso del solito: fuori dal terreno urbano, il regista americano finisce per perdere padronanza dei propri mezzi e smarrirsi anche lui nella foresta, schiacciandosi ogni volta sulla soluzione più comoda e scontata. Ma non basta muovere nervosamente la camera, alzare il volume del suono ambientale o disseminare questo verde labirinto di cadaveri, per evocare il mistero di un luogo “tra” mondi, sospeso e spettrale. Ci sarebbe voluto invece un vero regista/medium, una Kawase o un Kiyoshi Kurosawa, portatori di quella sensibilità mesmerica tipicamente nipponica che Van Sant, obiettivamente, non ha.
Non aiuta nemmeno la sceneggiatura, costretta a sdoppiare il film per farne uno solo. L’incontro tra i due aspiranti suicidi non è tutto, anche perché non ci sono i presupposti né per aprire una dotta discussione sul fine vita, né un appassionante e umanissimo dialogo tra disperati. Tra ruzzoloni, capitomboli e franate che nemmeno Willy il Cojote potrebbe sfangarla, non c’è tempo per sedersi attorno a un fuoco e scambiare due chiacchiere. La sensazione è che lo sceneggiatore Chris Sparling non saprebbe bene che cosa far dire a quei due, così inventa l’acqua calda del flashback, in cui ci vengono mostrati i passi che hanno portato il personaggio di McConaughey dove lo troviamo ora. Praticamente un altro film di crisi matrimoniali, mogli alcolizzate e diagnosi di mali incurabili. Non diciamo di più, tranne che la consorte è interpretata da una lodevole Naomi Watts.
Sia ben chiaro, la prova degli attori è una delle poche note liete del film, insieme alle musiche di Mason Bates. Per il resto questo The See of Trees è un Mare di banalità deterministiche, incongruenze narrative, coincidenze posticce e tirate sull'immanentismo degne di un polpettone new age.