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La folle vita
Esordio nel lungometraggio dei belgi Ann Sirot e Raphaël Balboni, che con sei riconoscimenti ha sbancato ai Premi Magritte del 2022. La folle vita è un dramedy: l’umorismo al servizio di contenuti seri abitati da personaggi complessi e sfaccettati. È la lezione della commedia migliore: si ride se c’è dietro un dolore. E se la satira è più che mai materiale infiammabile, il privato si fa pubblico perché filtrato dall’auto-narrazione via social e l’amarezza diventa inevitabile inciampo. Sotto l’apparenza da commedia gentile rivela un po’ alla volta i traumi, i non-detti, le procrastinazioni di un’epoca. Di una generazione; anzi, due.
Al centro ci sono i trentenni Alex e Noémie: si amano in una casa arredata con gusto, immaginano il futuro con un figlio. Viene in mente, dall’altro lato dell’oceano, il racconto della “costruzione della genitorialità” di American Life, quando il protagonista sosteneva che “quelli come noi aspettano fino ai trent’anni e poi ci sorprendiamo quando i bambini non sono più così facili da fare”.
Alex e Noémie sanno che non si può rimandare in eterno, quindi ci stanno provando, pur con qualche difficoltà. Finché Suzanne, la mamma di Alex, comincia a manifestare un disturbo neurodegenerativo progressivo, la “demenza semantica”. Conseguenze: dilapida i risparmi, irrompe nelle case altrui, crea una patente falsa, diventa incontrollabile. Da mamma diventa, inesorabilmente, figlia: che si fa quando i nostri genitori regrediscono all’infanzia?
Senza scadere nella trappola del film a tesi né con la pretesa di fare sociologia d’accatto, La folle vita – con questa parola che evoca la progressiva demenza della madre, l’imprevisto squilibrio nelle vite dei giovani, il disordine che in un modo all’altro potrebbe indicare un nuovo ordine – si fa atlante sentimentale, culturale, politico sull’istituto della famiglia nell’Europa di oggi. L’avventura della maternità e della paternità si configura in modo più complesso e problematico, meno vincolato a modelli e schemi consolidati.
Ma sarebbe riduttivo limitare La folle vita a una variazione sul tema della gravidanza, perché Sirot e Balboni lo incrociano – e gli danno nuova linfa narrativa – con quello che, in fin dei conti, è una delle costanti degli ultimi anni cinematografici: la vecchiaia.
E quando non rappresenta il tempo della saggezza, del ripensamento, della trasmissione della memoria e delle conoscenze, l’anzianità è vissuta come scandalo (da chi la abita) e come impegno (da chi si ritrova accanto a una persona anziana: pensiamo ai genitori anziani e malati Amour, Mia madre, Dolor y gloria, The Father): in La folle vita la pianificazione del futuro si scontra con l’imponderabilità del presente, incarnato da Suzanne (interpretata mirabilmente da Jo Deseure).
Che, tuttavia, nell’inesorabile calata negli abissi della demenza, svela un’infanzia dello spirito che, con tutto il dolore che comporta, indica una strada inedita: facendo i conti con i limiti della madre e umanizzandone simbolicamente la figura fino a contemplarne la scomparsa fisica tramite quella mentale, gli aspiranti genitori imparano ad accettare le storture di un mondo che non è sempre all’altezza delle nostre aspettative. Ma che potrà accogliere chi verrà dopo di noi e si misurerà, suo malgrado e per fortuna, con una vita folle.