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John Chester, Molly Chester - La fattoria dei nostri sogni (Photo by Chris Pizzello/Invision/AP) - Courtesy of Teodora Film
Di solito i sogni manifestano i nostri desideri. Li superano, li oltrepassano. Spingono il cuore e la testa più in là in una dimensione onirica, ideale, utopistica. Aiutano l’uomo a non accontentarsi di quello che può raggiungere. La realtà, con la sua bellezza e crudezza, può essere affascinante da vivere. Può avvicinarsi al sogno ma un sogno non si rende prossimo alla realtà. Eppure, lontano o non lontano, questo non importa, ci sono vite che sembrano essere sogni che camminano. Che si fanno concreti. Reali. Che sono di carne e ossa. E uno di questi lo è davvero a tal punto da diventare un documentario girato lungo il corso di otto anni, La fattoria dei nostri sogni (The Biggest Little Farm il titolo originale).
Un film talmente piccolo che nelle migliaia di esercizi americani ha trovato spazio in sole 8 sale nel primo weekend. La presunzione dell’accoglienza era nella forma del film: un lungometraggio non di finzione, tratto dalla realtà, con un contenuto adatto (apparentemente) ad amanti del genere. Eppure queste 8 sale sono diventate, la settimana successiva al primo weekend di uscita, ben 300. Si sono moltiplicate come si è moltiplicato quel sogno di Molly e John Chester, due professionisti californiani.
Una blogger di cucina, famosa per la sua grande capacità di offrire ricette naturali e gustose, e un regista, vincitore di Emmy Awards per i suoi lavori a contatto con la natura. Marito e moglie vivono in una casa di città, adottano un cane (tra i 200 sequestrati perché coabitavano in una casa) e lo chiamano Todd. È un animale silenzioso tranne quando i due lasciano la casa per lunghi periodi. Il cane abbaia, Molly e John decidono che è arrivato il momento di mettere in pratica il loro sogno: creare una fattoria all’insegna della biodiversità.
Recuperano finanziatori e amici disposti a investire sul progetto e trovano ettari di terreno a Moonpark, California. Un posto lontano, dimenticato da Dio e con poca apparente vita.
La chiamano Apricot Lane Farms perché deve essere una fattoria con alberi da frutto coperta da tutta la fauna e vegetazione possibile. Si appoggiano a un consulente, annunciano sui social il bisogno di volontari e esperti. E iniziano a creare, giorno dopo giorno, la loro fattoria. I momenti difficili sono un’opportunità e anche se ad Apricot Lane Farms non mancano le bibliche epidemie o le giobbiche disavventure (dall’arrivo del coyote e delle lumache principio di perdite consistenti fino alla natura “assassina”, foriera di incendi) la fattoria diventa un nuovo mondo complesso, fragilmente meraviglioso e rivelatore della speranza nascosta nel creato.
Quel giorno dopo giorno, quel passo dopo passo, quell’acquisto dopo acquisto, è un’eco autentica, piacevole a vedersi, del bellissimo libro di Jean Genet e poi mediometraggio L’uomo che piantava gli alberi, ispirato alla storia di Elzéard Bouffier: “Quando penso che un uomo solo - scrive Jenet - ridotto alle proprie semplici risorse fisiche e morali, è bastato a far uscire dal deserto quel paese di Canaan, trovo che, malgrado tutto, la condizione umana sia ammirevole”.