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La donna della mia vita
Non ha il brio della farsa né la cattiveria della commedia La donna della mia vita: piuttosto l'ultimo film di Lucini si arena in un limbo, dove premesse e soluzioni sembrano cozzare, quasi dipendessero da intenzioni diverse. Chiara quella all'origine - il soggetto di Cristina Comencini - che strizza l'occhio senza dubbio alla commedia sofisticata americana, ai twist drammaturgici, alle scaramucce sentimentali, all'altalena di equivoci e rivelazioni. Meno netta è la scelta degli sceneggiatori - Giulia Calenda e Teresa Ciabatti - che rovistano nella scena teatrale del marivaudage pensando di adattarla all'italianissimo cote familiare, senza avere però la finezza psicologica della prima né la dovuta "familiarità" con il secondo. E poi c'è l'inedito imbarazzo di Lucini a maneggiare questo strano amalgama compositivo, mai trasceso in qualcosa di più personale, un guizzo, un'impronta che resti, anonimi e senza mordente entrambi.
Stranamente svogliato, il regista milanese pare appiattirsi sul copione, irretito forse dal surplus di tradizioni e istanze enunciative. Esageratamente timoroso, neanche avesse avuto in mano un lavoro di Coward. Non suscita allora il dovuto interesse questo triangolo amoroso tra consanguinei, dove due fratelli diversissimi (Alessandro Gassman e Luca Argentero) si scambiano donne (Valentina Lodovini) e ruoli - mascalzone e tenerone - con eccessiva nonchalance. Né convince il gioco al rispecchiamento che coinvolge i rispettivi genitori (Stefania Sandrelli e Giorgio Colangeli), alle prese anche loro con bugie, corna e camuffamenti.
Al di là della naturale empatia tra ruoli e interpreti - o se volete la condanna a rifare se stessi dei vari Argentero (timido, fragile e carino), Gassman (sciupafemmine e verace), Lodovini (oggetto del desiderio senza profondità), Sandrelli (madre un po' svampita) e Colangeli (al solito un po' troppo ruvido) - i personaggi soffrono della stessa sindrome del film, indecisi già in fase di scrittura tra la caricatura e la definizione a tutto tondo. Ovvero se partecipare a una farsa ben orchestrata o a una commedia corale. Non si tratta di ibridazione né di cortocircuito, ma di una mezza via che finisce per non andare da nessuna parte. E non basta più l'eleganza del brand Cattleya - nuovamente in collaborazione con Universal - a restiture dignità a un'operazione che, se pure evita la sciatteria e la volgarità di altri ben più beceri format, non ha il coraggio di osare, sazia di mutuare dal passato formule, storie e maschere popolari.
La grande commedia italiana - chiamata giustamente in causa da Riccardo Tozzi di Cattleya - non era un ricamo né un'astrazione da salotto, ma una formidabile equazione di punto di vista autoriale e immanenza sociale. A chi si rivolge, di cosa parla invece la nuova? Corna e famiglie sparite invece che di immigrati e disoccupazione? Va benissimo. A patto che si riconosca il vizio all'origine, lo sguardo biforcuto che da un lato vuole afferrare fenomeni collettivi e tendenze generazionali (qui divorzi, senso d'inadeguatezza e macchinazioni dentro una luccicante e posticcia cornice borghese), dall'altro però non vuole farsene carico preferendo rifugiarsi nel solito, deresponsabilizzato, esercizio di accomodante buonismo. Che è poi è la vera consuetudine a non tramontare mai in Italia. Il paese che tanto decanta la tradizione della commedia, non si è ancora accorto del suo dramma ereditario.