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L’attenzione alle tematiche di genere sessuale, alle differenti sfumature personali dell’identità e la conseguente agitazione di spauracchi come il gender e simili ha portato molti autori a riflettere sulle tecniche di “riabilitazione e recupero” che negli anni si sono operate nei confronti degli omosessuali: La diseducazione di Cameron Post è uno di questi.
Diretto dalla regista di origina iraniana Desiree Akhavan, il film vede protagonista la Cameron del titolo che, dopo essere stata scoperta a baciarsi con una sua amica, viene mandata in un una comunità di rieducazione per peccatori: il rapporto con altri due “discepoli” sarà alla base della sua personale diseducazione. La regista adatta con Cecilia Fruguiele il romanzo di Emily Danforth e realizza una drammatica teen-comedy in cui più che il peso delle azioni conta quello delle etichette.
Perché rileggendo il teen drama dei camping estivi - un po’ campeggi e un po’ collegi - nell’ottica del posizionamento sessuale (ma non solo: come il sesso omosessuale anche la droga è un peccato da raddrizzare), Akhavan realizza un film in cui il vero asse della riflessione è come ci si pone all’interno della comunità, dove siamo rispetto allo sguardo degli altri e come possiamo (dobbiamo) uniformarci a quello sguardo e a quelle attese. Il campo “Discepolo di Dio” non educa tanto al mantenimento della giusta via spirituale quanto alla sopportazione dello sguardo altrui, il giudizio implicito in quello sguardo ogni volta che si posa su di noi assieme alle etichette che comporta.
Continuando così un percorso cominciato col suo film d’esordio, Appropriate Behavior, Akhavan continua a riflettere sul rapporto tra percorso individuale e collettivo attraverso gli strappi dolorosi di quel percorso: e in La diseducazione di Cameron Post lo fa cercando toni sfumati e la precisione descrittiva dei personaggi, rigettando la condanna o il sarcasmo manicheo verso l’istituzione che critica ma allo stesso tempo ponendosi il problema di chi giudica e chi è giudicato. Sotto la punta dell’iceberg - l’immagine metaforica alla base del film - c’è una resistenza di pensiero, azione e identità che passa dalla diversità (una ragazza lesbica, una afro-americana bisessuale e un nativo americano chiamato “Due spiriti” per l’ambivalenza della sua identità di genere). E che cerca una libertà che non è solo politica, ma è soprattutto umana.