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La contessa bianca
Un amore muto. Lontano dai cliché e privo di retorica, ma vibrante e ricco di impercettibili sfumature. Le stesse che accompagnano tutto il film, nel suo raffinato tratteggio di personaggi e ambientazioni. Firma e stile sono del miglior James Ivory, qui alle prese con la Shanghai del '36. Il Kuomintang di Chang-Khai Shek controlla gran parte del paese, ma la guerra civile imperversa e il nord è già in mano ai giapponesi. Quella che vediamo è tuttavia una città cosmopolita, sfavillante, distante anni luce da tutto ciò. Un turbinoso crocevia di politici, faccendieri, rifugiati di ogni nazionalità e provenienza. La macchina da presa spazia senza compiacimento da interni spogli a esterni minuziosamente ricostruiti, da salotti aristocratici a bordelli fumosi. E' qui che Thomas e Sofia si incontrano per la prima volta. Lei è la Contessa bianca del titolo: una nobile russa decaduta, costretta a prostituirsi per mantenere la famiglia. Lui un ex diplomatico americano, che ha perso vista e affetti in un incidente. Il loro appare fin da subito un incontro di sensibilità e solitudini: ciascuno a suo modo, sono entrambi insofferenti al ruolo a cui la vita li ha condannati. Lui, Ralph Fiennes, perde il suo sguardo cieco nel nulla, alla ricerca di un sogno che sa di avere soltanto dentro di sé. Anche per lei, un'impeccabile Natasha Richardson, parlano soprattutto gli occhi. Spenti, sull'orlo del pianto, improvvisamente scaldati da un'inattesa speranza: le bastano quelli per delineare la sua parabola. La loro, anzi. Quella di un magnetico gioco di attrazione e repulsione, graduale avvicinamento e improvvisa ritirata. E' questa la vera trama del film: la progressiva rivelazione (e liberazione) di due esseri umani prigionieri di se stessi e delle circostanze. Il tutto, lungo una esilissima traccia di indizi, che non lascia spazio a sbavature. I giapponesi sono intanto alle porte. Il "Sabato di sangue" di Shanghai si sta consumando. E seppure sul finale sembra affacciarsi qualche concessione melodrammatica, basti pensare che la prima carezza arriva dopo già più di due ore.