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Dunque, si può fare. Del cinema sui ragazzi che ce li restituisca per come sono e non per come dovrebbero essere. Un film italiano sulla generazione Z che non sia una commedia borghese, romantica, un affresco generazionale, un dramma di periferia, un romanzo criminale.
Space Monkeys non è nulla di tutto questo. Ed è già questa una rivendicazione identitaria. Un film coraggioso, libero, orgogliosamente imperfetto.
Presentato in anteprima all’Heroes Film Festival di Roma, diretto dal crotonese Aldo Iuliano, un esordiente di 42 anni, per dire degli ascensori generazionali del nostro cinema. Già vincitore del Globo d’Oro e di numerosi premi internazionali per il cortometraggio Penalty.
Iuliano sa girare. E questa è la seconda notizia di giornata. Perché nel tempo audiovisivo in cui viviamo, in cui tutto è storia e sceneggiatura, qualcuno che si ricordi che bisogna pur far parlare le immagini è da tenere da conto.
Lo stile di Iuliano è un po’ come la generazione che mette in scena: sofisticato e ruvido. Sembra dettato dagli spazi che attraversa e dai corpi da cui viene attraversato e invece è sempre in controllo. Aiutato, va detto, da una squadra di maestranze di assoluto livello: Daniele Ciprì alla fotografia, Marco Spoletini al montaggio, Enrico Melozzi alle musiche, Francesca Sartori ai costumi.
Insieme danno la grana all’immagine e un riconoscibile timbro estetico all’operazione, che resta come sospesa nel vuoto, tra confezione di alta scuola e dimensione low-budget.
Così, come sospesi nel vuoto, anzi nello spazio, sono i cinque giovani protagonisti di questo viaggio al termine della notte: Justine (Souade Arsane), Marta (Amanda Campana), Ste (Haroun Fall), Balo (Riccardo Mandolini), Dani (Ambrosia Caldarelli). Veri e non veri. Maschere generazionali, effetti di una sociologia à la page: sono fluidi, sono influencer, sono trapper, sono cantanti da reality, sono genietti dell’informatica.
Un gruppo di attori bravissimi, circonfusi dei loro personaggi, di cui sono la distanza e l’estensione. Cannonate, lanciate contro la parete dello schermo. Kamikaze. È ancora la frontiera del corpo a definire, negare, includere. Dire. Un corpo sollecitato, pressato, spinto fino al punto di non ritorno. Un corpo tutto esteriorizzato, dichiarato, ostentato. Un corpo insomma che è già meta: oggetto autoriflessivo, discorso. Le maschere scimmiesche al neon sono una segnaletica. Il disvelante è invece il ritratto, il disegno, il i cinema, l’arte.
Space Monkeys è come un film tridimensionale al rovescio: si immerge in noi. Inizia e finisce su una spiaggia, come molti film generazionali. Che è un bivacco, un luogo di transito. Poi ci si sposta su un castello del’ 400, senza muoversi, come tra le stanze di un social media. Il tempo è un concetto relativo. Lo spazio non si estende là fuori, si arrotola, avviluppa, si strozza.
Qui un’intelligenza artificiale intrattiene i cinque a colpi di challenge sempre più pericolose. È la grande abbuffata di questa generazione, ma senza lo spernacchio, il giudizio, l’ideologia. Loro sono quello che sono. E che non sono.
Volevate i temi? Eccoli: solitudine, paura dei sentimenti, bullismo, omofobia. Qui però non sono inoculati per algoritmo. Non cercano un dibattito. Non pretendono un pensiero. Non sono loro a definire i personaggi. Al contrario.
Ecco: Space Monkeys è un film al contrario. Non omologato. Il titolo rievoca le due scimmie che nel ’59 furono lanciate nello spazio. E le scimmie alla fine sono tornate.