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La canzone della Terra
È un vero peccato che sia proiettato in sala solo per quattro giorni complessivi (dal 15 al 17 aprile e poi lunedì 22 in occasione delle Giornata mondiale della Terra) questo doc di Margreth Olin: una piccola gemma ecologista, meditabonda e lirica, che, col passo felpato, sguardo estasiato e volteggio lirico, incornicia e sostanzia il privato con l’universale, la sua famiglia con la Natura, gli anziani genitori con gli sterminati, natii Monti Scandinavi della Norvegia.
Producono Wim Wenders e Liv Ulmann, distribuisce in Italia la meritoria Wanted, Olin co-produce scrive, monta, interpreta e dirige un film – già sfilato al Festival di Toronto prima di rappresentare la Norvegia agli ultimi Oscar – che sin dalla prima inquadratura cerca uno struggimento romantico tra le catene montuose dell’infanzia, una Sehnsucht di un’armonia perduta con il cosmo in un’epoca di frenesia e devastazione antropomorfa. Bussola di questa nostalgia sono gli occhi, i passi, i sentieri lunghi dei genitori, lì a farsi baluardi di un’altra civiltà perduta che pure sapeva rispettare, ascoltare e interpretare i bioritmi e le leggi della Terra.
Dalla primavera all’inverno, Olin torna nella natia valle Oldedalen (siamo nelle catene montuose della Norvegia sud occidentale), ricostruisce l’albero genealogico famigliare, e oscilla tra l’intimità e l’infinito, tra i batticuori e la contemplazione, tra il diario memoriale e la documentazione oggettiva. L’universale sostanzia il famigliare, le rughe e i capelli argentei di papà Jørgen Mykløen, e mamma Magnhild Kongsjord si sovrappongono e si confondono ai fili d’erba, ai crepacci, alle vallate, agli animali, alle cime, ai laghi turchesi.
La regista lavora in analogia e metonimia, dipinge murali bianco-verdi, cita Bergman, Kossakovsky (Acquarela), Friedrich, ma il papà Viandante stavolta contempla un mare di monti, ricerca il sublime, tende l’orecchio all’armonia musicale della terra, mentre la figlia ci ammonisce sull’assoluta, caduca irrilevanza della specie umana di fronte alla calma maestosità della Terra.
Certo, nonostante la sottotrama familista, il rischio cartolina turistica non è del tutto evitato: alla lunga abbondano, in serie, i campi lunghissimi e si moltiplicano le dronate compassate da video pacificante di You Tube su cime, crepacci, ruscelli, cime, fiordi e abeti. Ma è proprio questa la dichiarata peculiarità del lavoro di Olin: mutuare sui monti la posizione spettatoriale del cinema, fermarsi a riscoprire la purezza di uno sguardo incantato, disarmato, devoto allo spettacolo sempre cangiante Natura, con un occhio che sia libero da tecnicismi e sovrastrutture, che non si preoccupi di mantenere l’imparzialità, il distacco intellettuale e critico (non a caso Olin stessa apre il film come voce narrante). Anzi che cerchi di far cantare la famiglia con lo spartito scritto dalla Natura.